Pensieri Contemporanei: intervista ad Alfonso Conte

Alfonso Conte è professore associato di Storia del Mezzogiorno presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Salerno. Da oltre venti anni indirizza l’attività di ricerca agli stili di vita e ai modelli di consumo dei ceti dirigenti nell’Italia meridionale. Di notevole importanza l’attività di conferenziere nella quale profonde da sempre considerevole e riconosciuto impegno.

Partendo dai dati sull’astensionismo elettorale, e in particolare dal crollo diffuso del numero dei votanti tra 1° e 2° turno delle ultime consultazioni, si può affermare che la partecipazione politica “affascina” sempre meno?

«Meglio ancora: circa metà dell’elettorato è lontano dalla politica anche in occasione di un impegno minimo e allo stesso tempo decisivo come l’espressione del voto. D’altra parte, anche tra gli stessi votanti la percentuale di coloro che partecipano effettivamente alla vita politica è estremamente ridotta, prevalendo atteggiamenti di indifferenza e distacco rispetto a rituali di un passato più o meno recente (tesseramenti a partiti, vita di sezione, ascolto di talk show politici). Paradossalmente, è anche vero che l’astensionismo non è più un fenomeno riconducibile semplicisticamente al qualunquismo, essendo in molti casi frutto di scelte meditate e consapevoli. In tale panorama l’unico segnale di novità è rappresentato dal tentativo del M5S di utilizzare internet (benché gli esiti siano in molti casi contraddittori) mentre appare apprezzabile il tentativo avviato da associazioni presenti sul territorio di ravvivare il confronto prima promosso dai partiti. Siamo in una fase di transizione: molto del vecchio (della politica ideologizzata legata al contesto internazionale della guerra fredda) è ormai morto e sepolto, ma il nuovo ancora non si rivela compiutamente, producendo un vuoto che rischia di incrinare la fiducia di molti verso la democrazia».

Nell’immaginario collettivo si consolida la convinzione che i partiti siano concretamente
in mano a grandi elettori. Secondo lei, è vero, perché? E chi sono?

«I casi sono diversi, ma quello più frequente mi sembra riguardi i “professionisti della politica”, in molti casi reduci della prima repubblica, capaci di sfruttare la propria capacità organizzativa in un contesto dove gli apparati di partito si sono liquefatti. Per il futuro mi pare un nodo decisivo: la grande novità della fase post-ideologica dovrebbe essere costituita dai voti di opinione, liberati da calcoli opportunistici, ma, soprattutto nel Mezzogiorno, il loro peso continua a essere marginale soprattutto per la sopravvivenza di vecchie prassi clientelari e notabiliari. O scompaiono definitivamente coloro che intendono la politica come fonte di reddito per tutta una vita oppure dovremmo ritornare a organizzarci, a rimettere in piedi gli apparati di una volta. Altrimenti, i pochi in grado di farlo domineranno agevolmente».

A suo giudizio, cos’è e quanto conta la credibilità in politica?

«La credibilità è fortemente legata all’elemento politico di gran lunga più importante ai nostri giorni: la comunicazione. È più credibile chi meglio riesce a veicolare la propria immagine, in molti casi inventata per esigenze di mercato elettorale. Evidentemente, una forte responsabilità è dei mezzi di informazione, sempre più lontani dallo svolgere quella funzione di svelamento della realtà, di contro-potere, molto attiva a partire dal ’68 e poi lentamente attenuata. Tuttavia, la diffusione di piattaforme on line basate sul factchecking fanno sperare nella possibilità di contrastare efficacemente la tendenza a ridurre la politica alla sola attività di propaganda».

La politica di governo sembra annaspare nel tentativo di dare risposte concrete ai bisogni
reali dei cittadini. I numeri disegnano un paese frammentato e al collasso. Qual è il senso di
“partito liquido” lanciato da Renzi in una fase in cui l’offerta politica non riesce a incontrare
la domanda?

«L’insoddisfazione per la forma-partito oggi più diffusa favorisce in molti casi un sentimento di nostalgia per i vecchi partiti. Ma non dovremmo dimenticare che quei vecchi partiti iniziarono a declinare proprio per l’incapacità, a partire dagli anni settanta, di offrire risposte a una crisi sempre più evidente, alle domande di allora. Inoltre, i costi di quegli apparati erano diventati insopportabili, come tangentopoli dimostrò, e ormai funzionali soprattutto a garantire privilegi a una pletora di funzionari. Il partito-liquido, pertanto, mi appare come un esito necessario. Il vero problema è che la sua affermazione è coincisa con la crisi generalizzata dei corpi intermedi, soprattutto del sindacato, e che, in loro assenza, la formazione del consenso è stata abbandonata nelle mani di chi (quasi sempre poteri forti con rilevanti interessi finanziari) è maggiormente in grado di orientare i mezzi di comunicazione».

Se è vero che la fiducia nelle istituzioni abbia toccato il fondo a quali rischi si espone
il paese?

«Come già avvenuto in passato, il rischio principale è di cercare scorciatoie, di pensare che la democrazia possa fare a meno del confronto, della paziente ricerca della mediazione. Di convincersi che il leaderismo, il governo di uomini soli al comando, costituisca l’unica risposta possibile. Di ritenere che per essere deliberativa, capace di assumere decisioni in tempi brevi, la democrazia non possa essere anche partecipativa».

Gli sbarramenti elettorali privano la rappresentanza parlamentare a molti milioni di votanti. Come si coniuga questo diritto negato con la necessita di governare? E, secondo lei, esiste una modalità alternativa?

«Anche in questo caso ricordare l’evoluzione storica aiuta a comprendere perché il nostro presente assume determinate caratteristiche. Il maggioritario si afferma soprattutto per l’immobilismo e l’instabilità degli esecutivi causati dal precedente sistema proporzionale, particolarmente evidenti nell’ultima fase della prima repubblica. In realtà, non esiste un sistema elettorale migliore dell’altro, e Sartori ce lo ricorda da sempre. In Italia cambiamo le regole del gioco perché non riusciamo a cambiare il modo di giocare. Ma la vera riforma, quella che non si può fare con una legge, riguarda la cultura politica diffusa, la propensione consolidata a intendere la contrattazione come scambio di favori, il do ut
des
come fondamento delle relazioni a carattere pubblico».

Nel quadro istituzionale attuale sembra difficile definire quanto il Sud conti nelle priorità dell’agenda politica di governo. Quali sono, secondo lei, i motivi e cosa si può fare per riportare la questione meridionale al centro della partita?

«Mi ripeto: ricordiamo la ricostruzione dopo il terremoto dell’80? E quale spettacolo, noi meridionali, fornimmo all’opinione pubblica? Oppure come, ancora oggi, le regioni del sud utilizzano i fondi europei? Passano gli anni, ma nel Mezzogiorno continuiamo a votare politici nel migliore dei casi mediamente incapaci. Viceversa avremmo bisogno di dirigenti in grado di non attardarsi in rivendicazioni neo-borboniche, di non continuare a patire assistenzialismo. L’Africa Settentrionale e il Medio Oriente oggi sono un problema, ma domani potrebbero rappresentare una straordinaria opportunità e il Mediterraneo tornare a essere un’area dinamica di scambi commerciali e crescita economica. Il Sud può cessare di essere periferia se Italia e unione Europea promuovono una politica mediterranea basata sulla cooperazione internazionale, sulla realizzazione di infrastrutture in grado di agevolare lo sviluppo. Una classe politica meridionale capace di guardare al domani, di non fermarsi alla ricerca del consenso immediato, dovrebbe basare su tali temi una nuova stagione della Questione meridionale. Ma oggi mi sembra inutile sperare».

Qual è il peso specifico delle attività politiche locali e in che modo possono influire sulle
dinamiche delle strategie centrali?

«Piani di zona, tavoli di concertazione e consorzi vari hanno prodotto e producono montagne di carta, inutili appesantimenti burocratici. Viceversa la competizione territoriale, basata sul tentativo dei singoli amministratori di ottenere maggiori stanziamenti dai governi centrali, ha perpetrato una crescita “carsamente” programmata e, quindi, caotica, sia a livello economico sia urbanistico. Occorrerebbe invertire la rotta e, partendo dal basso, ossia dai Comuni e soprattutto tra quelli piccoli, ricercare collaborazioni tra gli enti, al fine di ridurre le spese superflue e armonizzare gli investimenti, nel rispetto delle diverse vocazioni territoriali, quasi mai evidenziate dagli ormai vecchi confini amministrativi».

Sostanziali e rapide trasformazioni culturali e tecnologiche farebbero pensare che in fondo
non si stia peggio rispetto al secolo scorso. Eppure tra la gente si coglie una diffusa sfiducia
nel futuro. Come si spiega questa che sembra essere un’apparente contraddizione?

«Lo disse profeticamente Pasolini alla nascita della società dei consumi di massa: per
avere più cose stiamo rinunciando ai valori tradizionali, stiamo illuminando strade e case,
ma stanno scomparendo le lucciole. Faccio un esempio relativo al nostro Mezzogiorno:
i rapporti di vicinato. Nella società preindustriale i vicini di casa erano come parenti
stretti, con i quali era usuale condividere momenti di gioia e dolore. Oggi viviamo in
abitazioni molto meglio arredate e ricche di mille conforti, ma facciamo fatica a ricordare
il nome della signora che da vent’anni abita al piano di sopra».

La felicità è un argomento politico? E perché?

«Perché la felicità dei governati, e non solo dei governanti, dovrebbe essere l’obiettivo principale di chi gestisce poteri pubblici».

Galante Teo Oliva