Un “Mare” di bugie

Padova – Al referendum del 17 aprile erano stati chiamati alle urne circa 51 milioni di italiani. Bisognava decidere se abrogare o meno una norma che permette alle compagnie petrolifere di estendere le concessioni per estrarre idrocarburi da piattaforme offshore entro 12 miglia dalla costa fino all’esaurimento del giacimento. Il referendum è fallito perché non ha superato il quorum del 50 per cento più uno degli aventi diritto. L’affluenza infatti è stata del 31,2 per cento, con una maggioranza del “Sì” dell’85,8 per cento. Per la prima volta un referendum non era stato richiesto attraverso una raccolta di firme da parte dei cittadini ma, aspetto importante, voluto dalle Regioni (Basilicata, Calabria, Campania, Marche, Liguria, Molise, Puglia, Sardegna e Veneto) col sostegno di alcune associazioni ambientaliste e movimenti locali. Ma facciamo un passo indietro.

Circa trent’anni fa, quando cominciò l’estrazione del petrolio in Basilicata, si pensava a una nuova era per tutto il Mezzogiorno d’Italia, che avrebbe portato sviluppo e benessere. Ci sarebbe stato lavoro per tutti, i giovani non sarebbero stati costretti a emigrare, si sarebbero pagate meno le bollette della luce e del gas e con le royalty del petrolio si sarebbero costruite strade e ferrovie. Oggi sappiamo che non è così; le opere infrastrutturali non sono state fatte, il costo della benzina è aumentato e i giovani continuano a emigrare. La regione più povera d’Italia degli ultimi quindici anni, secondo i dati Istat, resta la Basilicata insieme ad altre regioni del Sud. Più che una benedizione, il petrolio ha rappresentato una maledizione, creando povertà, disoccupazione e inquinamento. Oggi le dichiarazioni dei petrolieri fanno chiaramente capire che, dopo il referendum, andranno avanti, trivellando in località del Sud che fino a ieri erano state inviolate.

Attualmente in Italia le piattaforme producono solo il 3 per cento del gas, e lo 0,8 per cento del nostro consumo annuo di petrolio. La dismissione delle piattaforme quindi non intaccherebbe minimamente il sistema energetico italiano. Ma dismettere un impianto comporta costi altissimi per le società concessionarie preferendo estrarre il minimo indispensabile per il maggior arco di tempo possibile. Queste attività inoltre, generano un gettito modestissimo di royalty, ma inquinano molto. Le società petrolifere non pagano royalty se producono meno di 20mila tonnellate di petrolio su terra e meno di 50mila in mare, come ha spiegato Andrea Boraschi, responsabile della campagna Energia e Clima di Greenpeace. Il segno evidente che il petrolio non porti ricchezza e benessere, è stato il dato della Basilicata, l’unica regione in Italia che ha superato il quorum, nonostante abbia diversi impianti sul suo territorio, producendo l’80 per cento di petrolio.

Esiste poi un altro dato preoccupante, quello dell’inquinamento. Come ricordano diverse associazioni ambientaliste come Greenpeace e Legambiente, le concentrazioni di sostanze tossiche e cancerogene nei fondali vicini alle piattaforme sono preoccupanti e si ripercuotono nel nostro ecosistema. Una perdita di petrolio è sempre un disastro; forse non tutti sanno che in Europa negli ultimi 20 anni sono avvenuti 9.700 incidenti, mentre in Italia ci sono state almeno 1.300 incidenti censiti, secondo il rapporto del centro studi del Parlamento europeo che ha realizzato un’indagine sulle conseguenze delle trivellazioni. Il WWF ha denunciato che ben 42 delle 88 piattaforme nella fascia off limits delle 12 miglia non sono mai state sottoposte a Valutazione di Impatto Ambientale. Questo dato da solo riesce a dare la dimensione del problema.

Poi c’è la questione “lavoro”. Parte dell’informazione e del governo hanno invitato all’astensione, perché una vittoria del “Sì” avrebbe comportato la perdita di migliaia di posti di lavoro forse 5mila, forse 7mila, forse 11mila. È stato lo stesso presidente della regione Puglia Michele Emiliano a smentire questi dati: «Il Presidente del Consiglio dice due bugie: la prima è che ci sarà una perdita di posti di lavoro. La seconda bugia è che se vince il referendum si bloccano le coltivazione dei pozzi, non è vero». La realtà è che sulle piattaforme lavorano appena 100 persone e gli addetti del settore petrolifero, compreso l’indotto, sono meno di 5 mila. Se il Governo ponesse maggiore attenzione nel settore delle rinnovabili, del turismo, della fruizione delle bellezze paesaggistiche e culturali, si creerebbero molte migliaia di posti di lavoro. Come diceva tempo fa Massimo Gramellini: «Il patrimonio artistico e culturale è l’unico petrolio su cui siamo seduti».

Allora lasciamoci con una serie di interrogativi: se questi sono i fatti, perché il referendum è fallito? Perché Napolitano, Renzi, Boschi, Madia, Serracchiani e gran parte del PD hanno invitato all’astensione? Perché su un tema così importante, che riguarda il futuro dei nostri figli, che riguarda la nostra salute, che riguarda il futuro di un intero Paese, c’è stata una campagna di disinformazione? In Italia contano più le lobby petrolifere o la democrazia?

Sante Biello