UMBRIA: LA CENSURA DEL TRASFORMISMO

“Non vi è niente di più difficile da valutare di un fatto” Alexis de Tocqueville

Il fatto: la coalizione di destra stravince, sarebbe più
corretto dire fa “cappotto”, in una Regione storicamente di sinistra.

L’Umbria governata, dal 1970, unicamente da schieramenti di
sinistra, una vera e propria roccaforte anche più dell’Emilia, all’inizio
dell’autunno del 2019 cambia colore.

I numeri non lasciano interpretazione:

  • Lega
    37.3 %   (14 % alle Regionali del 2015 –
    20.2 % alle politiche del 2018)
  • M5S
    7.4 %                 (14.6 % alle
    Regionali del 2015 – 27.5 % alle politiche del 2018)
  • PD
    22.6 %                  (35.8 % alle
    Regionali del 2015 – 24.8 % alle politiche del 2018)
  • FDI
    10.4 %                 (6.24 % alle
    Regionali del 2015 – 6.6 % alle politiche del 2018)
  • FI
    5.6 %                      (8.5 % alle
    Regionali del 2015 – 11.2 % alle politiche del 2018)

Il dato che deve far maggiormente riflettere, tuttavia, è
l’affluenza: 64% cioè +13% rispetto al 2015. Tradotto: i cittadini umbri sono
andati a votare ed hanno scelto altro. Almeno stavolta la “scusa”
dell’astensionismo può essere accantonata.

In queste ore c’è la “rincorsa” alle giustificazione per
gli sconfitti e all’ovvietà del risultato per i vincitori.

Ma, tornando a Tocqueville, la valutazione del fatto? Qual
è? Allo stato attuale non c’è!

La critica, analitica e lucida, è l’unico modo per imparare
da una sconfitta; perché è dai fallimenti che s’impara non dalle vittorie.

Le vittorie non si “costruiscono” con un elogio del
trasformismo, che nemmeno Machiavelli avrebbe potuto descrivere, per
giustificare scelte con il nobile proposito di arrestare: la “minaccia
fascista” o la “deriva totalitaria”. Argomentazioni esemplari ma, a dire il
vero oramai, anche un po’ patetiche.

E le sconfitte, a loro volta, non possono semplicemente
liquidarsi con: “il popolo è ignorante”, “il popolo è razzista”, “il popolo si
lascia incantare”!

La critica non va mai nella direzione della partecipazione,
unico identificativo della libertà, parafrasando il compianto Gaber.

Non più di 30 anni fa ci si incontrava nelle sedi,
rigorosamente territoriali, di un partito. Non importava il colore delle sedi,
ma l’esistenza di luoghi fisici in cui si poteva discutere e confrontarsi in
piena libertà. Si parlava di territorio e di problemi ad esso connessi e,
soprattutto, si ascoltava col risultato di “crescere” tutti insieme: bianchi,
rossi, verdi o neri.

Oggi questo non avviene più. C’è una parte della
generazione attuale, precaria ed arrabbiata, che nella migliore delle ipotesi
arriva a 1.000 euro a fine mese e si sente esclusa da ogni processo
decisionale. Questa parte “accusa” quella ad essa più vicina, stabile e
retribuita, che guadagna qualche decina di migliaio di euro all’anno, come
causa del malessere nazionale. E mentre i primi accusano i secondi, questi
ultimi vedono nei primi il più grande “ostacolo” al cambiamento globale. Questa
contrapposizione alimenta quella che ha sempre più sembianza di una guerra tra
poveri.

Forse è proprio questa l’analisi critica: aver perso
contatto con il Popolo. Aver iniziato a parlare al popolo da un pulpito e
smesso di parlare “insieme al popolo”.

E di esempi su come liquidare argomenti fondamentali, negli
ultimi anni, ne abbiamo a bizzeffe:

  • Si
    deve regolamentare l’immigrazione? Il popolo è razzista;
  • Si
    deve abolire l’art. 18 e fare il jobs act? Se il popolo non capisce è perché
    ignora le dinamiche del mondo del lavoro;
  • Occorre
    modificare la Pubblica Amministrazione e la Scuola? Il popolo si oppone perché
    non ha voglia di lavorare;
  • Si
    fa una legge elettorale ad uso e consumo di alcuni, ma il popolo che contesta
    non capisce di stabilità e politica;
  • E
    mentre si regalano milioni di euro pubblici a banche ed aziende di Stato, si
    lasciano fallire le Piccole e Medie Imprese con una tassazione tale, che se nel
    Medio Evo le guardie del Re le avessero chieste ai contadini sarebbero state
    accolte a secchiate di letame.

E ci meravigliamo se il M5S, prima, e la Lega, poi, sono
arrivati al 40%?

Bisogna ricominciare a parlare con e tra la gente.
Occorreranno anni, forse altri 30, ma è necessario ricomporre uno strappo
sociale che, oramai, sta prendendo una direzione irreversibile.

E questo è davvero pericoloso, altro che “deriva fascista”!

Francesco Saverio Minardi