MARADONA TRA MITO E UMANITA’, GENIALITA’ E FOLLIA

LA PARABOLA DI UN CAMPIONE ASSURTO AGLI ONORI DELLA STORIA

di Anna Maria Noia

Guitto, scugnizzo, genio (a suo modo); genio, ripetiamo, e sregolatezza. Onirico, un “mito” (anche “sacrificato”, spesso, sugli altari degli interessi “politici” calcistici, quelli dei grandi vertici e/o degli sponsor internazionali )

Una leggenda, realmente. Un piccolo-grande Uomo, per sempre nel cuore degli Argentini e dei Napoletani.

Quelli “veraci”, che, come lui, hanno sofferto la povertà. Al di là, però, dei suoi ben noti eccessi, dopo tanti traguardi o vittorie raggiunti. Tra luci ed ombre, come si… “conviene” ad un autentico guru “poetico” del Calcio.

Una stella fulgente, nel firmamento della fantasia e della poesia (appunto) dello sport. Stiamo parlando, ovviamente, del protagonista delle cronache attuali: Diego Armando Maradona. Morto a soli 60 anni, per le complicazioni subentrate al recente intervento al cervello.

Maradona si è sentito male, pare, lo stesso giorno del suo sessantesimo compleanno. Poi l’operazione – al fine di rimuovere un ematoma cerebrale. Infine il collasso cardiocircolatorio; l’infarto – dovuto a un edema polmonare – che lo hanno portato all’incontro con un avversario molto più forte di lui, stavolta: Signora Morte.

Nel giorno in cui ricorre S. Caterina d’Alessandria (25 novembre), alle 12.07 – orario argentino (16.07 in Italia) – il Nostro sale in Cielo, nel Gotha delle “Divinità” (terrene, ovviamente). Scompare, quindi, dalla scena del mondo “El pibe de oro”; “La mano di Dio”, il fantasista e maestro di vita; il vero “fenomeno” (altro che top players attuali!) che ha riscattato due popoli (quale “eroe dei due Mondi”, a guisa – mutatis mutandis – di Garibaldi): i Latino-americani e i Partenopei.

Caratteri molto simili, quelli che accomunano Argentini e Napoletani. Pur nelle sue contraddizioni ed incoerenze, Diego è stato onesto e ha creato occasioni di sogno, di speranza, di unione – quasi di fratellanza. Di vera e propria gioia. Di identificazione, anzi: di immedesimazione. Ma adesso, il suo mito “immortale” (e, purtroppo, anche “mortale”, umano, fragile, caduco – tra le vanità dell’esistenza) rimarrà per sempre nella memoria collettiva di tantissimi, ma senza di lui qui sul pianeta Terra.

Venticinque novembre 2020, accendo la tv e c’è la brutta notizia .Quella che in tantissimi, non solo tifosi, non avrebbero mai voluto sentire.

Mio fratello, prontamente contattato telefonicamente, ha pianto, e non solo lui. Il campione di sempre, di tutti; l’Idolo dalle mille sfaccettature – ben conosciute e “giustificate” dalle folle che lo hanno amato, nonostante tutto – ci ha lasciati.

Per giunta, in un periodo così negativo – in questo 2020 da dover archiviare al più presto – che la sua dipartita (non scevra da polemiche, sul presunto ritardo dei soccorsi) ha gettato maggiormente nello sconforto coloro che lo hanno apprezzato ed amato.

Napoli lo ha sempre adorato. Come ha rispettato ed osannato altri “Intoccabili”, altre stelle nel Cielo come Mario Merola, Pino Daniele e (sebbene in maniera meno… “eclatante” o “colorata”) Massimo Troisi.

Facendo così entrare nel mito la sua umana e fragile natura. Una natura così generosa con i suoi conterranei “poveri”, sebbene alquanto controversa. Ci riferiamo alle sue dipendenze, alle bizzarrie di  eterno ragazzo; così vulnerabile e ribelle, così avvezzo ai “colpi di testa” – dentro e fuori dal campo. Quel campo, lo stadio S. Paolo, che – doverosamente – verrà a lui intitolato e dedicato.

Dunque non solo i murales e gli altarini in ogni zona della città, nei quali era celebrato come eroe del quotidiano. Come epigono di una fede che connota, sempre poeticamente – tra feticismo (nel senso buono del termine) popolare e una sana dose di “superstizione” (magia urbana, declinata con ironia, fascino, buon senso e tanta immaginazione) – la grandissima dignità dei Napoletani. Nonché dei “compagni”, dei “fratelli” argentini.

Uomini  che, come papa Francesco (di origini italo-argentine), sono considerate – da molti “benpensanti”, ancora nel 2020 – abitanti nelle periferie di un eterno Sud. Ma non è questo il luogo, non è la sede per fare – adesso – polemica. Non dopo ciò che ha regalato a Napoli e a Buenos Aires il grandissimo Diego Armando. Guaglione piccoletto, ma svelto e simpatico. Un oggetto, oltre che di “culto… “feticistico” e anche di grande interesse antropologico ed etnografico. Sarebbe bello se qualche studente e/o – perché no? – studentessa (il tifo per la squadra del cuore è comune sia ai “maschietti” che alle donne) potesse trarne spunto per un’eventuale tesi di laurea.

Proprio in Antropologia Culturale. Questo potrebbe essere uno spunto, un assist calcistico – tanto per rimanere in tema. Perché Diego (dall’omonimo santo spagnolo, venerato il 13 novembre, la cui etimologia potrebbe derivare sia dal greco “Didachos” – “istruito” – che da una variante di “Santiago” o “Thiago”, relativi a Giacomo il maggiore) è da considerarsi a pieno titolo materia di studio in Etnografia e/o in Antropologia Moderna?

Le ragioni sono molteplici e complesse. Si deve tener conto – anzitutto – dei meccanismi di identificazione e di immedesimazione, sopra citati, da parte dei dignitosissimi, sognatori abitanti di Napoli. E non solo, anche di tutti gli Italiani e degli umili nei Paesi più sfruttati del mondo. Non dimenticando – poi – le origini povere di costui, che è riduttivo considerare solamente un (sia pur abilissimo) calciatore; campione; capocannoniere.

No, “Dieguito” (numero 10 da sempre; maglia “ritirata”, appena ha appeso le scarpine al chiodo) non è stato soltanto un bravissimo ed eclettico “artista” del pallone; del calcio; di tutte le discipline sportive; dello Sport tout court (migliore finanche di Pelè e di Platinì).

Ha rappresentato il riscatto sociale, il sogno, la speranza – infine la sofferenza; nella sua vivace e travagliata esistenza terrena. Uno “zingaro” (nel senso non deteriore del vocabolo), popolare e umile, molto consapevole di sé e dei suoi tanti – ma… “apprezzati”, “tollerati” – difetti. Una “funzione” (matematica) continua, più che una parabola – quella del suo esistere.

Ha rappresentato – insomma – quello che, proprio in Antropologia, viene definito “totem”; “performer”. Tra folklore e popolarità da “magia urbana”. Un simbolo, dunque.

Ed andiamo avanti, riguardo questo personaggio “epico” e leggendario, dal cuore (come… “il pibe”) d’oro e dalla vulnerabilità accentuata.

Ma tuttavia umile, generoso fino alla prodigalità più assoluta. Franco con i compagni di squadra, autocritico, ribelle e rivoluzionario al contempo: un vero e proprio “Masaniello” della modernità. E, come Masaniello, vittima del suo stesso “successo”; della sua incostanza; della sua “gloria” (non in senso blasfemo). Anabasi e catabasi; discesa all’inferno – dalle alte stelle – che caratterizza noi “poveri” umani. Personaggio, certo, controverso e non “collocabile” – se si può affermare – in alcuna categoria umana. Ovviamente questa è un’esagerazione, un’iperbole. Ma quel che abbiamo scritto non è, poi, così lontano dal vero.

Nella sua morte/non morte, il Dieguito nazionale (perché, come detto, non apparteneva/apparterrà solo al Napoli o “a” Napoli) ha unificato maggiormente alcuni suoi amici e colleghi calciatori – che sembravano appartenere a fazioni diverse. È di questi giorni una toccante intervista tv allo juventino Lapo Elkann, apparso in video commosso e sofferente, sinceramente dispiaciuto per la scomparsa di Maradona.

Ebbene, uomo tra luci ed ombre anch’egli, a nostro avviso Elkann non è mai stato più vero ed umano come nell’offrire tale suo, recente tributo amicale al deceduto. Di Diego hanno parlato in tantissimi, a livello nazionale (od internazionale, considerando i suoi conterranei latino-americani; che pure hanno rilasciato dichiarazioni ai media) e tra i supporter partenopei. Tra cui, bambini e giovanissimi; nati molti anni dopo l’esperienza di Dieguito al Napoli o in Italia: i loro genitori li hanno allevati educandoli ai “valori” di Fedeltà e di Carisma tipicamente “maradoniani”. Come tradizioni tramandate, letteralmente ed effettivamente, “di padre in figlio”. Con grande riconoscenza ad “uno di noi”; non solo in quanto “la mano di Dio” – sul campo – ha infiammato le folle con i suoi gol-capolavoro. Non solo, ancora, per i due scudetti, vinti soprattutto grazie a lui e all’entusiasmo fervoroso che (carismaticamente) promanava dalla sua persona.

Due stelle – datate 1987 e 1990 – che sono andate “in aggiunta” alle coppe (Uefa, Italia e Supercoppe) ottenute sempre durante la carriera dello scugnizzo in Campania.

A S. Severino vi è un “Napoli club” molto accorsato, che ha anche organizzato eventi di solidarietà (a favore, ad esempio, della Caritas locale e di tanti, troppi “sfortunati” – emarginati dal mondo del business e dell’agiatezza – che afferiscono per l’appunto alle porte della Caritas). E anche il club “Napoli” sanseverinese è stato colpito nel profondo da questa triste notizia. In realtà, il club era già attivo negli anni ’80 e ’90. In questi ultimi tempi, ecco che – nuovamente – i supporter del “Ciuccio” (l’asino compare nel logo del Napoli) sono tornati a far sentire la propria voce. E a gridare al mondo l’orgoglio di essere Partenopei; di essere “Napoli”. Come, d’altronde, i residenti della (“vera”) Napoli… “mediterranea”.

Lo piangono (ma lo rimpiangeranno in eterno) – quindi – gli Argentini (un milione di persone, tra tafferugli e scaramucce, hanno voluto scortare il feretro alla “Casa Rosada” e lungo le vie di Buenos Aires; tre i giorni di lutto nazionale in questo Stato) e i Napoletani. Nonché tantissimi Italiani – meridionali e non.

In particolare, sono accomunati dal dolore la ex moglie Claudia (fidanzata “storica”, nonostante i tanti tradimenti del campione; da cui ha divorziato nel 2004 dopo tanti litigi. Il matrimonio è durato quindici anni); i tanti figli – legittimi o non: Giannina e Dalma; Diego Fernando; Jana; Diego Sinagra; la ex compagna Veronica Ojeda; i sette fratelli. Tralasciamo, in questo nostro articolo, tutte le polemiche che stanno sorgendo – come di consueto accade per molte persone famose – adesso che il Mito si è spento. Infatti si discute dell’eredità, oltre che sui presunti ritardi nel soccorrere questo calciatore e fenomeno di costume (sebbene le cronache parlino di ben nove autoambulanze, sopraggiunte – forse troppo tardi? – al domicilio di Maradona, quando ha avvertito il malore).

Quello che resta è pura leggenda, da continuare a ricordare a chi verrà dopo di noi. Ai tanti Diego che sono fuori e dentro di noi. Dalle borgate periferiche della miseria alle banlieue estreme dei nostri sogni e/o “deliri” di onnipotenza. Dalle squadrette che corrono tra il fango (Le “Cebollitas” o giovanili dell’Argentinos Juniors – le “cipolline” – poi al Boca Juniors. Questo prima dell’approdo al Napoli – nel 1984) all’onore degli altari, quale “monumento” (egli stesso) all’estro e all’istrionismo. E concludiamo tutto con le parole, rivolte (retoricamente) a Napoleone da Alessandro Manzoni (ne “Il 5 maggio”): “Fu vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza!”. Solo rispetto, quindi, dobbiamo tributare al campione. Il giudizio verso l’uomo, adesso, è nelle mani del Creatore.

Anna Maria Noia