Elena Sofia Ricci: “Dei personaggi mi interessa trovare il loro lato tragico e grottesco”

di Stefano Pignataro

In scena al Teatro delle Arti di Salerno con “La dolce ala della giovinezza” di T. Williams con Gabriele Anagni e per la regia di Pier Luigi Pizzi lo scorso 11 e 12 dicembre, Elena Sofia Ricci racconta l’esegesi del personaggio e di quanto la intrighi entrare nella condizione esistenziale di ogni personaggio che interpreta.

-Lei è’ attrice eclettica, dotata di notevole versatilità. Con quale metodo ha affrontato il ruolo che porta in scena nel dramma di Williams e quali, tra i molteplici insegnamenti dei suoi Maestri, ritiene sia stata quello che le è stato più fruttuoso?

Ho avuto ed ho tanti Maestri, da Mario Scaccia ad Armando Pugliese.  Tra i tanti insegnamenti avuti da loro c’è quasi sicuramente il senso di raccontare personaggi mai drammatici e melodrammatici ma di trovare il tragico ed il grottesco in loro; allo stesso modo trovo interessante ricercare questi due elementi nella vita, legati da un filo sottile. Ho amato sin da subito il personaggio di Alexandra come ho amato sin da subito la trasposizione del regista Pizzi. Per mio gusto, affinato durante i miei quasi quarant’anni di carriera, mi interessa poco il dramma borghese tant’è che quando scelgo i testi scelgo autori come Pirandello, Miller, Williams che, anche se sono considerati autori di dramma borghese, secondo me non hanno nulla del dramma borghese, ma vedo drammi e tragedie esistenziali quale appunto Pirandello. O la grande tragedia greca che non ho ancora affrontato ma che mi piacerebbe molto frequentare come attrice.

Un interesse intenso per il Teatro del grande Novecento che si allinea con la grande Letteratura che ugualmente la appassionerà…

Certamente. Sono affascinata ed interessata da questi autori (specialmente teatrali) che raccontano tragedie esistenziali di tutti noi e di ogni generazioni: la paura di non esserci più, la paura di scomparire. Come certa Letteratura ha raccontato il crollo della borghesia, certi autori hanno raccontato temi che affondano nella tragedia umana, nel senso del vuoto, come i personaggi che porto in scena: Alexandra teme di scomparire, Chance di non apparire mai. Temi che sembrano scritti oggi per i giovani.

-Allude forse all’uso dei social network?

I social sono, per questo tema, una grande metafora. Con i social si alimenta questa voglia di non voler mai scomparire, di “esserci” perennemente e di essere “speciali”. Non si può essere normali, ma sempre speciali, come il personaggio di Chance che aveva il “bisogno” di essere speciale…un bisogno irrinunciabile.  Per alcuni giovani, seguendo questa linea molto pericolosa, non è permesso fallire, sbagliare, tentare di misurarsi con un’ambizione misurata secondo un proprio autentico talento. Occorre, a parer mio, riappropriarsi anche della noia. La noia, quel senso di vuoto, è utile per fermarsi, per riflettere, per accendere l’immaginario e concentrarsi su se stessi.

Lei ha interpretato, tra i molteplici personaggi, “Anna Obrafari” nello sceneggiato di “Orgoglio”, con la regia di Giorgio Serafini e Vittorio De Sisti su soggetto di Maria Venturi e prodotto dalla Titanus. Uno sceneggiato elegante e meraviglioso, specchio di un’Italia dei primi anni del Novecento dell’età giolittiana. Che ricordo ha di questa esperienza? Può Anna Obrofari essere definita anche un personaggio moderno o rimane contestualizzata in quel determinato periodo?

Orgoglio è stato davvero un bellissimo sceneggiato. Il tocco di classe è stata la bellissima colonna sonora realizzata da mio marito, il Maestro compositore Stefano Mainetti, anche Docente di Composizione per la Musica applicata alle immagini presso il Conservatorio di Santa Cecilia a Roma. La colonna sonora prevista all’inizio era certamente un omaggio al quel genere di Letteratura di inizi ottocento, ma, a mio parere, un po’ stucchevole anche perché un conto è realizzare quel tipo di musica ai primi del Novecento, un altro è realizzarla nel 2003-2004. L’unica soluzione per poter far digerire quel tipo di linguaggio era che la colonna sonora ci tirasse tutti su. Quella colonna sonora (non lo dico perché si tratta di mio marito, poteva anche essere stata scritta da un suo collega, rimane bellissima) ci ha aiutati nella recitazione perché la musica collima perfettamente su una determinata azione o su di un peculiare stato d’animo di un personaggio e fornisce diverse chiavi di lettura: si pensi al “Valzer di Hermann”, interpretato da Franco Castellano…quello, musicalmente, si chiama “Tempo del Diavolo” è da proprio la sensazione di un qualcosa di diabolico, di efferato, come il personaggio del Conte Hermann Ludovici.

Intervista tratta da "La Città" su autorizzazione dell'autore