I santi di gennaio, tra presente e passato, a Mercato San severino

di Anna Maria Noia

Mercato San Severino, ridente località del Salernitano – sita in una favorevole e strategica posizione commerciale della “Campania felix” (cioè “fertile”) – è ricchissima di storia e di tradizioni etnografiche. È avvolta nella cultura. Tutto ciò grazie, tra molto altro, alla millenaria sua storia – con in primo piano il celebre maniero (risalente all’anno 1000) della famiglia Sanseverino. Una nobile stirpe (o schiatta), che molto lustro ha dato alla cittadina – già fiorente all’epoca dei Romani (prima ancora ospitava numerose popolazioni, come Osci e Sanniti). Proprio gli antichi Romani, colpiti dalla centralità “commerciale” di questo luogo, si insediarono nelle aree che poi essi stessi denominarono “Rota”.

Questo in quanto veniva pagata, dai molti mercanti che afferivano al nucleo cittadino, una sorta di “pedaggio” sui “veicoli” (carri) che recavano le merci. Questo dazio o gabella era definito “rotaticum”. Già da tale fatto si evince la naturale vocazione, appunto negoziale, del paese. Anche nel Medioevo, con il cosiddetto “maestro di bando” o “di banno” [sic!] – ad istituire mercati e fiere (c’è differenza!). Questa importante e decisiva figura era detta “Acconciagioco”: si tratta – anche – di un cognome tipico della vicina costiera amalfitana; raggiungibile dal borgo montano di Spiano (frazione sanseverinese, che era ben collegata alla costiera – tramite il valico di Chiunzi). Da questo termine deriverebbe il cognome – tutto sanseverinese, anzi: spianese – Acconcia. Anche ai nostri tempi, il commercio è una delle peculiarità della cittadina. Sebbene negli ultimi anni le varie attività stiano estinguendosi e vanno scomparendo – abbastanza celermente. Ed inquietantemente. Nonostante i tanti piani per tentare di risollevare le sorti dell’economia in questo centro. “A S. Severino o tavernai o facchini” – recitava un adagio dei nostri avi contadini – opportunamente tradotto. A sottolineare l’importanza delle compravendite. Oltre al castello, però, vi sono tante altre mirabilia da visitare – alcune pressoché sconosciute ai più; alle giovani generazioni. Tra queste, il campanile di S. Giacomo; l’eremo di S. Magno nella frazione Acigliano; le chiese di S. Eustacchio e di Piazza del Galdo (entrambi tali vocaboli sono annoverati tra le ben ventidue frazioni di S. Severino) e il bellissimo ma fatiscente (allo stato attuale) sito – davvero antico – di S. Maria o S. Marco a Rota, nella frazione Curteri.

Pare sia l’insediamento originario dello sviluppo demografico nella cittadina. Ma Mercato San Severino offre, ad eventuali visitatori e/o curiosi, anche una panoramica di santi e beati davvero molto famosi: è il caso, e l’esempio, di S. Severino vescovo – celebrato (secondo il calendario attualmente in uso) il trascorso 8 gennaio – e di S. Tommaso d’Aquino – il 28 gennaio prossimo. Ma anche S. Antonio abate (17 gennaio) e S. Vincenzo martire (22 gennaio) interessano (e ne fanno parte) della “gloriosa storia” (magnifiche sorti e progressive) di Mercato San Severino e dintorni. Di S. Vincenzo, per esempio, sappiamo che è patrono della frazione omonima – in cui è posta la chiesa in cui vengono conservati il suo simulacro e quello di S. Pasquale Baylon (17 maggio). Da non confondersi con S. Vincenzo Ferreri del 5 aprile – anch’egli spagnolo, veneratissimo patrono della città – S. Vincenzo martire è rappresentato iconograficamente con la “classica”; consueta palma del martirio, con la dalmatica e con gli strumenti simbolo appunto del suo martirio: il cavalletto; la macina al collo; la graticola o l’uncino. Ad indicare come è stato torturato, fino alla morte. Inoltre questo santo, patrono dei vignaioli e della città di Saint Vincent, reca spesso in mano una pigna d’uva. È infine rappresentato – anche – con un corvo. Oltre ai santi citati in precedenza, occorre ricordare anche S. Rocco di Montpellier (commemorato in data 16 agosto) e la Madonna del Rosario. Protettori, con S. Vincenzo Ferreri (l’angelo dell’Apocalisse, per la sua facondia roboante), dell’antico Stato di San Severino. Che si estendeva, una volta – fino al 1812 circa, secondo alcune fonti storiografiche – fino alle zone di Siano e Castel San Giorgio. Anche Roccapiemonte (apud o apus montem) in origine era parte dell’Universitas sanseverinese. In questo nostro articolo, proveremo a esplicare la storia e le curiosità di qualcuno di questi taumaturgi e/o santi che sono parte integrante dell’etnografia e della cultura sanseverinese.

Partiamo dal misconosciuto S. Severino – vescovo della zona ungherese (transdanubiana) del Norico. Alcuni studiosi locali affermano che il Norico sia, in realtà, una parte della Repubblica Italiana. Un santo non molto conosciuto appare, dunque, Severino. Il suo nome ha caratterizzato il paese a partire dal primo millennio: dopo la discesa – in Italia, al Sud e particolarmente nella fattispecie di San Severino – dei principi normanni come Roberto il Guiscardo (nel Salernitano) e, al suo seguito, i fratelli Troisio (o Torgisio, da Troyes oppure da Thor – è derivato il nome) ed Angerio “de Rota”. I fratelli hanno contribuito a “creare” l’origine dei cognomi Troisi e Filangieri (figli di Angerio). Dapprima Troisio assunse la denominazione “de Rota”, in quanto il nome della cittadina – in quel periodo – era ancora quello utilizzato da Romani e (più tardi) Longobardi. Poi – dopo una lite con il papa del tempo, che lo scomunicò (la scomunica era, per l’epoca, un’onta grandissima – sia per il potere spirituale che per quello temporale, riferiti e rivolti ai “leader” politici del passato) – egli si autoproclamò “de Sancto Severino”.

E, per una sorta di distensione o “disgelo” nei confronti del pontefice, ecco che Troisio fece portare le ossa dei santi Severino e Sossio nella cittadina. Ciò spiega le origini, gli etimi del toponimo. Prima dei Normanni, San Severino era “governata” – per così dire – dai Longobardi. Un popolo agli inizi rude, barbaro nel senso “pieno” del vocabolo. Devoto al dio Mitra, osannato nei cosiddetti “mitrei”: anfratti o grotte, caverne naturali destinati al suo culto. Poi essi si convertirono al Cristianesimo, propagando la cultualità di S. Michele. Anche a Mercato San Severino, dove tuttora è viva la devozione del santo principe delle milizie celesti. Nella frazione S. Angelo – “a macerata” (perché si produceva e si lavorava la canapa) soprattutto. Mi-ka-El o Quis ut Deus, ossia: Chi è come Dio? Tornando ai Longobardi (uomini “dalle lunghe barbe” o “dalle lunghe alabarde”), dalla loro dominazione è rimasta – a San Severino – una serie di “tracce” sia topiche che linguistiche. Basti pensare ai gastaldati, veri e propri “centri di potere” – retti dai governanti longobardi – e alle etimologie di Piazza del Galdo o di Galdo di Carifi. Dal longobardo “Wald”, “bosco” ma anche “avamposto militare”.

E torniamo, adesso, a tratteggiare il profilo di S. Severino. Non senza aver parlato anche di Urbano VI – un papa che, stando alle attestazioni suffragate da alcune ricerche storiche, sarebbe (il condizionale è d’obbligo) nato nella frazione sanseverinese di Acquarola. Al secolo, Bartolomeo Prignano. Ovvero Plinianus. Alcuni possedimenti della famiglia Prignano si trovano – così pare – nell’omonima località tra Soccorso di Fisciano e Montoro (quest’ultimo paese, in Irpinia – Avellino – ma vicino a San Severino e al comprensorio provinciale di Salerno).

Ma descriviamo – in merito a S. Severino vescovo (secondo alcuni abate) – l’apposito gonfalone conservato presso la sede municipale di piazza Ettore Imperio. Esso ritrae e raffigura l’effigie di questo santo, con tanto di abito pontificale, bastone pastorale (o baculo – donde: “imbecille”, “in baculo” ovvero “senza l’appoggio del discernimento”) e con una “mitra” in testa. Stando ad alcuni studiosi, questo stemma ufficiale del Comune conterrebbe un innegabile anacronismo: fino a un certo periodo storico, difatti, sembra che agli abati o ai vescovi non fosse conferita la mitra, invece sul gonfalone l’immagine prevede proprio la mitra. Sempre sullo stemma, compaiono le lettere: “V S S”. Indicano il concetto “Universitas Sancti Severini”: “Università – o centro amministrativo – di San Severino”. Alcuni – pur illustri ed autorevoli – storici locali hanno descritto queste lettere alfabetiche come appartenenti all’acronimo “Vescovo di San Severino”. Ma è un errore evidente, scaturito dall’uso della lettera “V”. La “V” – presso gli antichi Romani – stava a rappresentare anche la “U”. Inoltre, nella lingua latina “Vescovo” è tradotto con “Episcopus”. Il gonfalone consta poi di una corona turrita, a identificare la potenza e l’opulenza della cittadina. Per di più vi sono – a coronare l’icona del santo – dei rametti di alloro o lauro (metaforizzanti la vigoria “morale”) e di quercia (una pianta che dà nome alla collina Cerelle) – per la forza “fisica”.

Differente è, invece, il simbolo della “famiglia” Sanseverino: uno scudo con campo grigio (o pardiglio) e una fascia (orizzontale o diagonale) di colore rosso. Questo il vessillo originario; poi, con le moltissime annessioni di contee (ad esempio quella di Marsico), regni e possedimenti vari, lo stemma si fregerà di altri elementi metaforici. Tempo fa, questo elemento era il “logo” della Regione Campania. La leggenda vuole che lo stemma dei Sanseverino fosse stato ispirato dall’armatura di un soldato sanseverinese: il grigio starebbe per la cotta e la maglia, mentre il rosso sarebbe il sangue del cavaliere ferito in battaglia: o della schiera sanseverinese o di un milite avversario. Tutto molto affascinante, in realtà! San Severino visse tra il 410 e il 482. Le notizie pervenute su questo personaggio narrano del suo arginare l’invasione dei barbari Rugi; anche in Italia. Le sue gesta sono state tramandate dal suo discepolo Eugippio, nonché dal diacono Pascasio. Pare che gli stessi invasori Rugi – alla fine – si convertirono alla fede cristiana, proprio per l’operato di questo umile anacoreta. Vestito – in alcune effigi – di una semplice tunica e di un cilicio. E veniamo – adesso – a San Tommaso – l’Aquinate. Passando per S. Antonio abate (da non confondersi con S. Antonio “di” – e non “da” – Padova; originario di Lisbona – via Belen o Betlemme: “casa del pane”; 13 giugno).

Il santo del 17 gennaio riprende il mito greco di Prometeo, che rubò il fuoco agli dei e lo portò agli uomini. In seguito Pandora (“tutto dono”) scoperchiò i vasi in cui erano contenuti – secondo la mitologia – i mali del mondo e Prometeo fu condannato a farsi beccare il fegato, organo il cui tessuto notoriamente ricresce, da un’aquila. S Antonio è rappresentato quindi con il fuoco e con il maialino – sempre al suo fianco. Uno dei suoi simboli è il Tau francescano – a forma di croce e, al contempo, di saio per l’appunto francescano. Patrono del fuoco e dell’herpes zoster (malattia detta anche “fuoco di S. Antonio”) è invocato – assieme a S. Barbara, venerata il 4 dicembre – per tutto ciò che attenga al fuoco o alle attività “piriche”. Per esempio, è protettore dei ceramisti e dei panettieri. A Mercato San Severino, S. Antonio è – tradizionalmente – colui che dà inizio al carnevale. “Sant’Antonio: canti, maschere, balli e suoni” – è un motto, uno slogan esplicativo della sua “presenza” sul calendario in pieno inverno. Un altro detto è “S. Antonio, prenditi il vecchio e dacci il nuovo”. Ricordiamo – a proposito del taumaturgo – che il fuoco è da tempo immemore importante elemento apotropaico (cioè di allontanamento degli spiriti immondi) e lustrale. Come lo è l’acqua – elemento opposto ma anche similare. Sempre a San Severino, per S. Antonio venivano effettuati numerosi falò; “fracchie” o “fucaròni”. “Fucanòli” a Campagna (Salerno) – dove la tradizione delle “vampe” è rimasta viva almeno ai periodi precedenti il famigerato Covid. Sia sul sagrato delle chiese che dinanzi alle abitazioni “private”.

Ma questo santo è da rimembrare per la gastronomia: ecco – di seguito – il menu che a San Severino viene preparato in occasione del 17 gennaio. Essendo il patrono dei focolari domestici – nonché, con S. Magno, degli animali, anch’essi domestici (ma anche dei maiali; comunque una volta – sempre nel Sanseverinese – si benedicevano gli animali delle fattorie, in occasione della ricorrenza del santo) – i piatti per S. Antonio sono a base di ingredienti “poveri”. Ricchissimi di gusto e di calorie, in realtà. Probabilmente l’espressione di piatti “poveri”, nella cultura contadina e/o “campagnola” dei nostri antenati, risiede solo nella facile reperibilità – in natura – degli ingredienti stessi. Ecco sua maestà il soffritto; ecco la regina delle tavole – ovvero: la tanto gustosamente decantata minestra “maritata”. Ecco tanti altri piatti della cultura popolare gastronomica sanseverinese. Il soffritto – nelle cucine di questa cittadina – viene preparato sminuzzando minuziosamente cuore; polmone; trachea e rognone (rene) del maiale. Oppure della mucca (vitello). Intanto si mette a bollire – “pippiare” – un denso e corroborante sugo a base di concentrato di pomodoro; peperoni rigorosamente rossi; foglie di alloro o lauro. Alcuni spargono un abbondante spolverata di formaggio pecorino grattugiato. Il soffritto può benissimo essere mangiato come piatto unico – magari con del pane biscottato (o “mascuotto” oppure “granone” – specialità della cittadina limitrofa di Bracigliano) sotto – oppure andare a “condire” i bucatini o i vermicelli. Ancora, per il 17 gennaio si preparano le braciole – sempre suine – e il migliaccio. Una “torta” di farina di mais. Del porco non si butta via nulla, anche il grasso è utile. Ricordiamo il “vucculàro” o guanciale e soprattutto la sugna (strutto, detto “nzogna” – in vernacolo). Un elemento “pesante” – se vogliamo – che una volta era conservato nelle vesciche di bovini, nelle macellerie. Proseguendo, sempre a base di grasso di maiale sono i ciccioli o “sfrìttole”. Altrimenti detti cigoli. Sono pezzettini di lardo sfiziosi ma “calorici”. Inoltre non si disdegna – a Mercato San Severino e dintorni – di preparare il “pastiere” (rigorosamente al maschile, da non confondersi con la pastiera pasquale – ovvero la “pizza di grano” o “di riso”). Il pastiere di maccheroni – nelle versioni salata e dolce. Coronato da foglie di alloro. Come dolci, famosissimo è il sanguinaccio – a base di sangue di maiale; cioccolata; liquore; pinoli; canditi e altro. Sono tipici della cucina di S. Antonio anche i krapfen e le castagnole. Pure i calzoncelli di castagne. In vista del carnevale, ecco anche le chiacchiere (cenci, bugie, frappe). E gli scaldatelli o “scauratielli”.

Ricordiamo che nella civiltà contadina l’uccisione dei maiali – che avveniva, ritualmente, proprio tra gennaio e febbraio – era un vero e proprio “spettacolo” etnografico. Una prova di passaggio dall’infanzia alla maturità. Coinvolgeva – sacralmente – tutta la famiglia, dai più adulti ai piccoli. Ognuno aveva una mansione diversa. Antiche consuetudini, del bel tempo che fu. Sperando che l’armonia e l’unità familiari possano essere riprese, quanto prima, alla fine della pandemia. Per concludere, idealmente, questa “carrellata” di santi “invernali” di gennaio ecco a tutti il dotto e illustre San Tommaso D’Aquino. In estate, invece, è il tempo (solenne) del principe di Montpellier e jacopeo (pellegrino verso Santiago, S. Giacomo il maggiore) Rocco. Ricorre il 16 agosto e assume il nome – germanico – di “Hrock” (“uccello sacro”, forse “corvo”). Di lui occorre dire che è invocato contro le pestilenze – essendosi anch’egli ammalato appunto di peste – e che è iconograficamente rappresentato con la cappa santa (conchiglia) e con il bastone pastorale: il già citato baculo. Detto in vernacolo partenopeo: “peròccola”. È raffigurato con un cane che gli reca un tozzo di pane, direttamente dalle mense del padrone – un certo Gottardo. È patrono dell’antico Stato di Sanseverino (dal 1600 al 1800), i cui confini andavano fin verso Castel San Giorgio, Siano, Penta di Fisciano. Non a caso, ancora oggi – in tali località – i festeggiamenti per S. Rocco sono fervidi e sentiti. A Siano, in particolare, il 16 di agosto si assaggiano la tipica e celebre braciola di capra, con la percòca (varietà di pesca più dura e gialla) inzuppata nel vino. Rigorosamente rosso. Basta così con S. Rocco.

E veniamo a S. Tommaso, l’Aquinate – perché la sua (ricca) famiglia possedeva delle proprietà a Fossanova e ad Aquino – zone entrambe laziali. Ma cosa c’entra il tomista, il patrista (il tomismo e il patrismo sono branche della filosofia e della teologia “classiche”) con San Severino? È presto detto: le sorelle del santo, autore del “Pange lingua” (meglio noto come “Tantum ergo”, cantato di norma il giovedì di Pasqua), pare fossero andate in sposa a due principi della famiglia Sanseverino. Per la precisione, le sorelle di San Tommaso si chiamavano Maria e Teodora. Alcuni studiosi parlano di una sola sorella – sposata ai nobili di questa città. San Tommaso d’Aquino ricorre il 28 gennaio prossimo venturo. In precedenza, il calendario riportava il suo nome in data 7 marzo; in questo giorno, una volta, i Sanseverinesi che andavano a scuola effettuavano il cosiddetto “precetto pasquale”. Infatti Tommaso è patrono degli studenti universitari (mentre S. Remigio era patrono degli scolari delle “primarie”, S. Giuseppe da Copertino invece proteggeva gli studenti adolescenti). La scuola secondaria di primo grado “San Tommaso” è intitolata al Nostro, Dottore della Chiesa, proprio per questo. E anche perché, narra la leggenda, il santo (detto “bue grasso”, “bue pingue” – in quanto forse affetto da gotta) già vicino alla morte ma in viaggio verso il Concilio di Lione, tornò a salutare (per l’ultima volta) le sorelle a San Severino.

Proprio sul castello, esattamente nella chiesa palaziale (cioè per i nobili; quella per il popolino era detta “pieve” o “plebana” – ed era dedicata a S. Nicola) di S. Maria, pare abbia vissuto l’estasi della beata visione del Paradiso. Sono le cronache a tramandarcelo. Anche a cura del fedele suo biografo, Reginaldo o Eginardo. Curiosità: S. Tommaso era ghiotto di alici secche – e volle assaggiarne anche in punto di morte. Anche S. Francesco d’Assisi era goloso di mostaccioli, anch’egli ne volle provare uno – mentre agonizzava. Tante le cose interessanti da sapere, e da tramandare, su San Tommaso: nelle immagini appare sempre vestito da frate domenicano; ha un sole dorato sul petto. Reca in mano, spesso (nelle immagini), la sua opera più conosciuta e apprezzata: la “Summa o Somma Teologica”. Era molto fervente, nelle sue pubblicazioni e nell’eloquio. Anche S. Vincenzo Ferreri e S. Domenico di Guzman (da cui, probabilmente, deriva il cognome Cusumano o Cosimato) sono vestiti con lo stesso saio bianco e nero. Anche S. Caterina. E non a caso sono santi presenti nella chiesa di S. Giovanni in Parco – sempre a S. Severino. Vicino al municipio e alla suddetta scuola media, che porta il nome di questo taumaturgo. Dapprima, tale scuola (pare che il progetto originario prevedesse “canoni” fascisti, ma l’istituzione è stata realizzata negli anni ’60) si chiamava “Salvatore Colonna”. Maestro e pedagogista sanseverinese, nonché suocero del podestà di San Severino negli anni ’20 e ’30. Tra i personaggi storici – in varie epoche – presenti a S. Severino citiamo anche il sindaco Agostino Guerrasio – cui sono intitolate delle strade; Amato Bilotta; Ettore Imperio; don Gregorio Portanova; ma anche i più “recenti” padre Gabriele Cuomo; padre Modesto Russo; Emilio Pesce; Orlando Ruggiero; don Salvatore Guadagno; Antimo Negri; Sabato Califano; Gino Noia; Salvatore, Girolamo e Vincenzo Liguori e tanti altri. Finiamo qui, consigliando ai più curiosi di “affrontare” la vita e gli esempi offerti da San Tommaso, nonché dagli altri santi – più o meno famosi – di cui è sempre stata ricchissima la pur piccola (ma importante!) realtà di Mercato San Severino. Perché conoscere il nostro passato equivale a vivere meglio il presente e – soprattutto – il futuro!