La cultura come ponte
In questo settembre che si apre come un sipario, l’Italia diventa un palcoscenico diffuso: piazze trasformate in biblioteche a cielo aperto, teatri che accolgono filosofi e musicisti, strade che profumano di formaggi e tradizioni.Un mosaico di voci e di gesti che raccontano un’Italia forse più viva di quanto la cronaca quotidiana ci lasci credere.
Eppure la domanda resta: la cultura è ancora un ponte, o rischia di diventare solo un’attrazione turistica tra le altre? Perché se i festival portano presenze, visitatori, consumo, il loro valore più autentico dovrebbe essere altrove: nella possibilità di aprire spazi di incontro e di pensiero, di costruire comunità attorno a un’idea, a un libro, a una musica.
La cultura, quando si fa evento, corre il rischio della superficialità: applausi veloci, selfie sotto un palco, hashtag che vivono un giorno e muoiono il successivo. Ma se la guardiamo con occhi diversi, la festa culturale è un rito collettivo: ci ricorda che l’uomo non vive soltanto di pane, ma anche di parole, di immagini, di sogni.
E c’è un altro aspetto che oggi appare più urgente che mai: in un mondo che sembra costruire muri più che ponti, la cultura è una delle poche forze capaci di unire invece che dividere. I festival non sono solo vetrine di eventi, ma radici che legano territori e comunità, fili che intrecciano storie locali con orizzonti globali. Ogni incontro diventa così un atto di resistenza contro l’isolamento, un modo per ricordare che siamo parte di un tutto più grande.
Forse dovremmo imparare a fermarci di più, a vivere i festival non come una corsa tra stand e palchi, ma come un invito alla lentezza, alla riflessione. Perché la cultura non è mai soltanto “intrattenimento”: è respiro, è radice, è visione.
E così, mentre il mondo sembra frammentarsi in tante solitudini, la cultura ci ricorda che le differenze non sono barriere, ma possibilità di incontro. Un festival può passare, ma un legame creato attraverso le parole e le idee può restare.