Libere riflessioni sul futuro della lingua tabarchina di Carloforte
Ho partecipato alcuni giorni fa a Carloforte alla manifestazione con la quale sono stati ricordati i 2 anni dalla nascita del progetto “Raixe-Spazi digitali per la cultura tabarchina” della Cooperativa Millepiedi in collaborazione con i Comuni di Calasetta e Carloforte. Nel corso della serata, i vari intervenuti oltre alla sottolineatura dell’indubbio valore del progetto, hanno inevitabilmente rimarcato la necessità di operare per la tutela del principale aspetto identitario della nostra cultura, cioè il dialetto
di Salvatore Volpe
Sono molti anni che questa consapevolezza si è fatta strada dando origine a iniziative meritorie a livello scolastico, associativo, istituzionale. Eppure la sensazione è che ciò non basti per impedire che il nostro dialetto progressivamente decada e sparisca.
Pur non essendo uno studioso della materia, penso sia corretto affermare in generale che le lingue muoiono perché altre riescono per varie ragioni a prenderne il posto; ed è esattamente ciò che in parte già accade per il tabarchino.
Non ci sono dati in merito, e sarebbe quanto mai opportuno che si
facesse questo censimento sulla conoscenza e l’uso del dialetto fra le giovani generazioni, ma basta parlare con loro e i più piccoli per capire che, accanto ad un nucleo ancora robusto che resiste, molti, pur capendolo, non lo parlano correntemente nella vita di tutti i giorni. Cosa sta accadendo?
Penso che i fattori principali che mettono a rischio il futuro del tabarchino siano fondamentalmente due; uno definiamolo culturale e l’altro demografico.
Cominciamo da quest’ultimo, il più semplice e lineare. Fino a qualche
decennio fa a Carloforte nascevano 70/80 bambini l’anno (non parliamo dei primi del 900 quando si andava ben oltre i 200!) oggi invece ne nascono appena una trentina. Il fenomeno migratorio è sempre stato
marcato fin dalla fine del secondo conflitto mondiale e tutt’oggi prosegue (nonostante il tanto decantato sviluppo turistico) ma mentre allora era frenato/compensato da un buon tasso di natalità oggi questo non
accade più e molti dei nostri giovani che parlano il dialetto vanno a vivere e magari a farsi una famiglia in continente, se non all’estero, determinandone un significativo impoverimento .
La popolazione di Carloforte è in continuo marcato calo. Di contro da qualche decennio assistiamo ad un fenomeno immigratorio che
certo non favorisce la diffusione del dialetto e cioè l’arrivo sull’Isola di famiglie e persone che vengono dalla penisola e dall’Isola madre ma anche dall’estero. Detti elementi demografici fatalmente incidono non poco
sul restringimento numerico della popolazione e delle giovani generazioni che parlano il tabarchino.
L’altro fattore è quello culturale. Indubbiamente la nostra insularità linguistica è stata aggredita dalla scolarizzazione e quindi dalla “invasione” della lingua nazionale e, ancor di più, dalla tv, che hanno eroso
sempre più gli spazi del tabarchino dentro le famiglie e nella vita sociale. E’ questo un fenomeno generale che ha riguardato altri dialetti a cominciare da quello a noi più vicino quello ligure, pressoché scomparso.
Da noi inoltre ha avuto importanza un meccanismo tutto interno alla nostra comunità. Negli anni sessanta/settanta, man mano che il livello d’istruzione cresceva, con tanti giovani che si laureavano, con tanti che poi diventavano insegnanti/professori nelle nostre scuole, questa nuovo ceto intellettuale
carlofortino, ritenendo il dialetto una lingua non più adatta al loro livello culturale e di cui se ne poteva fare a meno, non adatta inoltre a garantire una buona prospettiva formativa e di inserimento nella vita sociale e
lavorativa ai loro figli e alle giovani generazioni, ha finito per spezzare, almeno in parte, la nostra identità linguistica .
Questa scelta infelice, figlia di un provincialismo culturale marcato, ha nuociuto assai poiché ha provocato in non poche famiglie la scelta di non far parlare il dialetto ai propri figli ma la lingua nazionale,
provocando il fenomeno diffuso di ragazzi che finivano per parlare una lingua mista fatta di pseudo italiano e pseudo dialetto. Oggi per fortuna con il prepotente emergere della consapevolezza del valore della nostra
identità linguistica quel fenomeno è in larga misura scomparso, dopo avere provocato non secondari danni.
Oggi come possiamo combattere il rischio che il nostro dialetto nei prossimi decenni per le ragioni accennate sparisca ? Certo la battaglia da ingaggiare è assai difficile quasi impossibile come si evince dal caso Calasetta, l’altra realtà tabarchina nella quale le giovani generazioni di fatto non parlano più il dialetto.
Spezzare la tenaglia micidiale demografico-culturale è davvero improbo. Dobbiamo fortemente ringraziare le Istituzioni e le Associazioni che da qualche tempo stanno seminando consapevolezza, stanno seminando
la cultura che tutela il dialetto. In modo particolare penso alla scuola nella quale, oltre ai laboratori linguistici, si dovrebbero altresì programmare lezioni ordinarie di e in dialetto sia per chi lo conosce e sia per chi lo deve apprendere (così come si apprende una lingua “straniera”). Penso alle Istituzioni, in primis il Comune che, forte delle disposizioni regionali che tutelano anche il tabarchino, dovrebbero imprimere una grande spinta verso il bilinguismo negli atti, nelle sedute dei propri organi, negli uffici pubblici, nella cartellonistica ecc. (qualcosa si vede ma è ancora troppo poco come lo Sportello e il Polo Linguistico).
Penso alle emittenti locali (tv, radio) che dovrebbero assai implementare l’uso del tabarchino nei loro programmi (cito in tal senso il bell’esempio –finora unico- del GR Tabarchino a Radio San Pietro ideato e condotto dalla
brava Maria Carla Siciliano).
Allo stesso modo dovrebbero fare gli operatori turistici e commerciali anche come valore aggiunto del loro marketing promozionale. Penso infine al folcklore, alla musica, al teatro su cui ci difendiamo abbastanza bene pur potendo fare di più (ad esempio riesumare la bella iniziativa del
Festival della Canzone Tabarchina). Insomma uno sforzo sinergico complessivo che potrebbe servire a bloccare o rallentare il lento decadimento dell’uso del dialetto.
Se posso evidenziare un’altra esigenza è che i vari dibattiti/convegni sul tabarchino non si riducano a cenacolo per soli esperti ma sempre si
pongano la domanda di cosa fare per non perdere la nostra lingua dialettale, oltre naturalmente allo studio dei suoi aspetti linguistico-grammaticali come l’importante esperienza avviata anni fa dal prof. Toso.
Il fronte della battaglia attraversa prima di tutto la famiglia perché è li che si potrà vincere o perdere definitivamente la guerra. Bisognerà trovare assolutamente un modo, delle iniziative capillari di stimolo e
convincimento delle famiglie (almeno quelle originarie di Carloforte) affinché parlino e facciano parlare il dialetto ai propri figli (gli altri lo potranno apprendere e parlare attraverso le scuole).
La butto lì: perché al momento della nascita o della dichiarazione di nascita i genitori non vengono coinvolti in qualche azione di sollecitazione per spingerli a parlare e far parlare il dialetto al bambino?, Oppure perché non si pensa a qualche forma di agevolazione a favore di quelle famiglie che s’impegnano in tal senso?
Insomma io credo che ci debba essere una sorta di mobilitazione complessiva permanente di tutti, uno sforzo corale, perché si
faccia il possibile per dare una prospettiva al tabarchino e continui a rimanere nella nostra comunità di Carloforte una lingua viva e vitale, parlata dai bambini nei loro giochi, dagli adulti, nella vita sociale di tutti i
giorni e che risuoni forte per i carruggi e le piazze “du Paize”.
Salvatore Volpe
Ex Responsabile Settore Cultura del Comune di Carloforte