Il Ponentino-N°3

Venerdi 26 novembre 2021
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pag 2. Redazionale
Occorre “ricordare”, perché un popolo senza memoria non ha futuro

Il ricordo di un caro amico di Pegli e del Circolo Sopranzi: Nicolo Capriata., in occasione del suo libro pubblicato postumo. L’imperdibile video intervista a Maurizio Lastrico, la Val Varenna e tanto altro in questo terzo numero del nuovo PONENTINO…



pag 3. Terza Pagina: cultura e spettacolo
Video intervista a Maurizio Lastrico

Video intervista a cura di di Antonello Rivano
Con l’attore genovese abbiamo parlato di Teatro e cinema, ma anche di famiglia, Genova, il dialetto e le radici, scoprendo alcuni aspetti forse inediti dell’attore genovese…



pag 4. In primo piano
Le grandi potenzialità mai colte del sistema dei trasporti ligure

di Marco Maltesu
Genova possiede una situazione unica nel mondo dal punto di vista intermodale per la presenza adiacente di aeroporto, porto, ferrovia ed autostrada…



pag 5. Territorio
Val Varenna da riscoprire

di Francesca Pieri
Prendere l’auto e addentrarsi in Val Varenna può portare a sorprendenti scoperte…



pag 6. Mostre
Circolo “Amici della Val Varenna” APS: inaugurata la mostra della Sezione Fotografica

di Carlo Carossino
Era il 2015 quando un gruppo di amici facenti parte del Comitato della Val Varenna, amanti della Farinata di ceci, vennero contattati da Oscar Farinetti per portare questo prodotto tipico di Pegli, all’EXPO 2015 di Milano all’interno del padiglione di EATALY, un sogno nel cassetto che mai avremmo pensato di poter realizzare.



pag 7. Incontri
Ritorna la tradizionale visita dei Carlofortini a Pegli

di Antonello Rivano
Pegli domenica 21 novembre. Presso la chiesa di S.Maria Immacolata e San Nazario si è celebrata la Santa Messa Solenne in onore della Madonna dello Schiavo patrona di Carloforte. Numerose le figure istituzionali con la presenza del Sindaco di Genova Bucci. Nella mattinata i carlofortini avevano partecipato alla celebrazione tenutasi presso l’Oratorio di San Nazario e Celso di Multedo…


Associazioni & Comitati : Cosa fanno, chi sono



pag 8. Comitato Pegli Bene Comune
Ripulite le scrittele scritte sui muri del ponte di via Piandilucco

Lo annuncia il comitato in un post sulla loro pagina FB giovedi 11 novembre…



pag 9. Associazione Comitato di Quartiere di Multedo
Petizione online : Autoparco a Multedo? No grazie!!! No alla realizzazione di un autoparco per mezzi pesanti

No alla realizzazione di un autoparco per i mezzi pesanti nell’area di Fondega Sud, a Multedo. Come Associazione Comitato di Quartiere di Multedo, in collaborazione con i comitati Pegli Bene Comune, Val Varenna e Via Cassanello, siamo a proporre questa raccolta di firme, per opporci, con fermezza, all’ennesima servitù che andrebbe a gravitare sul nostro territorio…


RUBRICHE



pag 10. E pòule/Le parole
Ciæto

di Fiorenzo Toso
La parola “ciæto” oggi vuol dire essenzialmente ‘pettegolezzo malevolo’, ‘diceria senza fondamento’…



pag 11. Ponente d’oltremare
La cucina carlofortina, specchio e riflesso della storia e delle tradizioni della comunità

di Nicolo Capriata
La cucina di una società è il linguaggio nella quale essa traduce inconsciamente la sua struttura” ha scritto Claude Levi Strauss. Viene quasi da pensare che quando espresse questo concetto il noto antropologo francese si trovasse a Carloforte…



pag 12. Libri
“Antologia Tabarchina alla Spoon River” di Nicolo Capriata (Fausto lupetti editore, 2021)

di Antonello Rivano
Nicolo Capriata si rifà alla celebre opera di Lee Masters, e, come lui ha fatto immaginando il paese di Sponn River, traduce in parole i pensieri di personaggi noti e meno noti. Solo che questa volta il paese è reale: Carloforte, si tratta di persone che in esso hanno vissuto, in epoche diverse, e ne hanno fatto o subito la storia e le vicende…



pag 13. Il cibo: tradizioni e territorio
Non sono solo castagne

di Sergio Rossi
Dopo la canicola estiva, l’autunno arriva quasi come un miraggio e porta in eredità i frutti che la buona stagione ha maturato. I boschi si tingono di nuovi colori, sfumature impossibili perfino da raccontare; toni caldi e generosi nella loro fugace apparizione…



pag 14. Romanzo a puntate
La forma della felicità”
Capitolo 1.La Promessa

La prima puntata del romanzo di Antonello Rivano: La forma della felicità (ilmiolibro 2018). Una epopea che parte dal 1790 e arriva ai giorni nostri. La storia parallela di due famiglie divise dal destino. Un naufragio e un delitto aprono un cerchio che solo molti anni dopo si potrà chiudere. Una linea sottile traccia il confine tra il sogno e la realtà. Un filo invisibile lega due terre: Pegli e Carloforte…


APPUNTAMENTI

pag 15. Gli eventi in programma: dettagli, informazioni, locandine

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Editoriale

Occorre “ricordare”, perché un popolo senza memoria non ha futuro

Nicolo Capriata

A un amico
Una parte di questo numero è dedicata a un amico: Nicolo Capriata, scomparso a settembre di quest’anno.
Nicolo, carlofortino, era un amico del Circolo Culturale Norberto Sopranzi ma soprattutto di Pegli e dei pegliesi. Uomo di Cultura che ci ha insegnato a fare divulgazione e ricerca storica senza mai cercare la luce dei riflettori.
Ecco, vogliamo iniziare questo numero del PONENTINO con una citazione che tanto gli stava a cuore:
Non c’è da scommettere un solo soldo su un popolo che non abbia rispetto per il proprio passato (Claudie Antoine Pascal).

Perchè è con la memoria storica, culturale, quella delle tradizioni ma anche quella “del paesaggio” , che presente e futuro devono fare i conti, per non perdersi nei meandri del profitto e del vuoto di valori.

IN QUESTO NUMERO
Un articolo di Marco Maltesu ci parla in maniera approfondita di Genova e trasporti, tema sempre caldo.
In questo numero troverete molti riferimenti alla memoria e alle radici, ne parliamo anche nella video intervista a Maurizio Lastrico a cura di Antonello Rivano
Di radici si è pure parlato negli con gli amici carlofortini venuti in visita a Pegli. Le Radici e la memoria del territorio nella Mostra fotografica degli Amici della Val Varenna
La sezione dedicata ad associazioni e comitati ospita un pezzo su un ottimo lavoro svolto dal “Comitato Pegli Bene Comune” e la petizione dell’ “Associazione Comitato di Quartiere di Multedo” contro l’autoparco.
Ancora memoria con la rubrica Paòle/Parole con il prof.Fiorenzo Toso che ci parla della parola “Ciæto“.

Una recensione sul libro postumo, di recentissima pubblicazione, di Nicolo Capriata e il suo intervento durante le Giornate storiche Pegliesi del 2018 per ricordare lo studioso carlofortino
Come al solito diamo Spazio al Cibo legato alle tradizioni e al territorio con un pezzo di Sergio Rossi sulle Castagne.
Per finire, e prima dello spazio dedicato agli eventi in programma, un regalo a tutti i lettori de il PONENTINO: a puntate pubblichiamo il romanzo , edito nel 2018, di Antonello Rivano: La forma della felicità. Una storia che parte nel passato per arrivare ai giorni nostri, muovendoci tra Pegli e Carloforte. Un circolo che si apre con una tragedia e si chiude…per saperlo dovrete attendere l’ultima puntata.

La redazione
Scrivete a redazione.ilponentino@gmail.com

https://tinyurl.com/37mn6thj

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Video

Video Intervista a Maurizio Lastrico

di Antonello Rivano

Cinema, TV, cabaret, come non ricordare Zelig ; tanto teatro: Brecht, Shakespeare, Goldoni, Tolstoj, per citarne alcuni. Maurizio ha fatto anche moltissima “piazza”. <<Esiste una sostanziale differenza fra teatro e piazza, intremini di pubblico>> ha detto l’attore, <<possiamo però dire che il secondo funge da pelestra per il primo>>

Con Maurizio avevamo concordato una intervista per iscritto, via mail.
Da lui è invece partita l’idea di farla in video, suggerimento che in redazione abbiamo raccolta con entusiasmo. Ne è nato il video pubblicato sul nostro canale Youtube e che abbiamo inglobato in questo servizio.

Questo video da la misura di come un Vip possa rimanere attaccato famiglia, terra (in questo caso Genova e la Liguria), radici, portandole con se, non come fardello ma bensì valore aggiunto alla sua carriera.

Abbiamo parlato di Teatro e cinema, ma anche di famiglia, Genova, il dialetto e le radici, scoprendo alcuni aspetti forse inediti dell’attore genovese <<Le radici sono importanti e vanno portate in altre realtà>>

https://tinyurl.com/x595yekn

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In primo piano

Le grandi potenzialità mai colte del sistema dei trasporti ligure

Di Marco Maltesu
Ormai da molti anni i settori tradizionali dell’economia subiscono dei forti rallentamenti, le nuove tecnologie, l’inserimento nel mercato economico di nuovi paesi rispetto a quelli tradizionalmente partecipanti e soprattutto la cosiddetta “globalizzazione” economica, hanno modificato non solo gli assetti esistenti nel panorama economico mondiale ma soprattutto i flussi di movimento delle merci e la metodologia di trasporto e di scambio.

A causa di tali cambiamenti dei rapporti economici internazionali l’Unione Europea sta perdendo consistenti quote di occupazione nei settori tradizionali (emblematico è il caso della produzione di acciaio che ha visto passare gli addetti dell’Unione Europea dagli oltre 800.000 nel 1975 a meno di 280.000 a fine 2000 e con un calo di un altro 20% per arrivare ai nostri giorni). È necessaria quindi un’analisi delle potenzialità economiche di sviluppo della locale economia in funzione dei fattori di eccellenza presenti sul territorio e dei possibili interventi atti alla loro valorizzazione.

Genova possiede una situazione unica nel mondo dal punto di vista intermodale per la presenza adiacente di aeroporto, porto, ferrovia ed autostrada. Altre città europee investono centinaia di milioni di Euro per avvicinare il porto all’aeroporto (come nel caso di Barcellona, addirittura spostando il corso di un fiume), Genova invece possiede questa peculiarità che attualmente non è utilizzata per carenza di connessione e di sinergia tra le singole infrastrutture.

Fondamentale  quindi sarebbe effettuare degli investimenti per valorizzare un sistema intermodale unico nel suo genere nel panorama mondiale.

L’intermodalità rappresenta di per sé una fonte di ricchezza economica e di occupazione, esempi in tal senso si traggono dal forte sviluppo economico e di occupazione generato da ogni singolo nodo intermodale europeo (ad esempio Rotterdam e Barcellona). Uno dei mezzi attraverso cui si può procedere allo sfruttamento della cosiddetta intermodalità è attraverso la creazione dei distripark ovvero di luoghi in cui avviene il trattamento della merce in transito, praticamente delle vere e proprie fabbriche di assemblaggio.

Il Distripark,  è una piattaforma logistica avanzata in grado di rappresentare da elemento di interscambio fra diverse modalità di trasporto e da anello di congiunzione fra industria e servizi, fra merce e prodotto finale. Un’area, cioè̀, allocata a fianco dei terminal portuali ed integrata con un sistema di trasporto intermodale (terminal ferroviari e container, aeroporto, autoporti, ecc.), dove è possibile dare valore aggiunto alle semplici operazioni di carico e scarico dei container.
Le merci vengono prelevate dai container e attraverso attività logistiche a valore aggiunto (confezionamento, etichettatura, assemblaggio, controllo di qualità e imballaggio) vengono preparate per la spedizione, adattandole così alle richieste del cliente finale e ai requisiti del paese di destinazione.

Queste piattaforme raggruppano attività manifatturiere leggere ed una molteplicità di operatori della catena complessiva dei servizi (door to door, dalla fabbrica iniziale al consumatore finale).

Dalle esperienze precedenti di Rotterdam e Barcellona si evince che un distripark è in grado di generare valore aggiunto locale per oltre 1,5 milioni di EURO/anno per ettaro e di valore aggiunto indotto per 5,4 milioni di EURO/anno per ettaro.

Altro elemento fondamentale legato al distripark è la creazione di posti di lavoro, elemento che in una città in crisi occupazionale come Genova ha anche un’eccezionale valenza sociale. Il numero di nuovi posti di lavoro ed il valore aggiunto che si genera all’interno di un distripark dipendono essenzialmente dalle tipologie di merci e dai processi che si svolgono all’interno della struttura, ad esempio l’assemblaggio di gioielleria genera un maggiore valore aggiunto di altre tipologie di merci.

In funzione dell’abilità dei responsabili del Marketing dei distripark di attrarre le merceologie e le lavorazioni più redditizie si possono conseguire buoni risultati occupazionali come a Rotterdam ( 30 addetti diretti in media per ettaro nei vari distripark ), oppure risultati eccellenti come a Barcellona (60 addetti diretti in media per ettaro). Si calcola per Genova su una superficie di 50 ettari una quantità di 3.000 addetti al suo interno. Altro elemento fondamentale è che il distripark genera una enorme quantità di lavoro indiretto normalmente stimato in 3,5 volte i posti di lavoro diretto.

Genova attualmente è attraversata da quantità di merci che necessiterebbero la creazione di un  distripark su un’area dai 50 agli 80 ettari (la soglia minima di superficie necessaria per la creazione di un distripark da molteplici studi internazionali viene determinata in 50 ettari). Una superficie di questa estensione è individuabile nell’area di Cornigliano.

L’area ex Italsider a Cornigliano di ponente si profila così come una zona naturalmente eletta ad accogliere il distripark perché ha l’estensione richiesta e la collocazione già in essere al centro e collegata completamente al sistema infrastrutturale genovese di porto, aeroporto, ferrovia e autostrada.

Tra le merci già attualmente in transito a Genova, tenendo conto dell’apporto di valore aggiunto e dell’apporto occupazionale delle singole tipologie, si possono individuare come ottimali per la creazione  del distripark le seguenti:

  • Giochi e altri prodotti per l’infanzia
  • Alimentari a lunga conservazione (congelati, surgelati, conserve e scatolati)
  • Alimentari freschi (carni, pescato, ortaggi, frutta, succhi, etc.)
  • Elettronica ed informatica (assemblaggi, controlli e certificazione di prodotto)
  • Tessili ed abbigliamento di qualità e specializzato
  • Coloniali (torrefazioni, miscele e confezionamenti personalizzati)
  • Meccanica, elettromeccanica, impiantistica e ricambistica ad elevato valore unitario
  • Prodotti del commercio eco-solidale e della cooperazione.

Per un progetto di piattaforma intermodale genovese diviene fondamentale la scelta della collocazione del distripark all’interno delle aree di Cornigliano. Si dovrebbe avere il coraggio di ridisegnare quella parte di Genova partendo dall’idea di mettere a fattore comune questa ricchezza esistente in città.

Creare gli spazi e raccordarli in funzione di determinare per ogni singolo sistema di trasporto la capacità di essere messo in “comunicazione” con gli altri determina un valore aggiunto che costruirebbe una occasione di creazione e sviluppo di un’economia che al momento non esiste se non per contenutissime componenti. È evidente che l’intera zona dovrebbe essere contenuta in un’area extraterritoriale necessaria a non appesantire il sistema intermodale stesso, con extracosti dovuti al semplice passaggio da un mezzo di trasporto agli altri.

L’ipotesi di distripark da collocare nella zona di ponente consentirebbe di mettere in rete tutto il sistema infrastrutturale dei trasporti delle merci genovese.

Nella parte confinante del distripark con l’aeroporto può essere creato un piazzale di parcheggio per gli aeromobili direttamente collegato con il distripark. Esiste poi un progetto che prevede il collegamento con i porti attraverso l’utilizzazione di chiatte, questo sistema consentirebbe il mantenimento delle merci in condizioni “extraterritoriali” con continuità fra aereo-distripark-nave con enormi benefici sui costi (ed anche una notevole riduzione del traffico di camion dal distripark al porto). Questa scelta di collocare il distripark nella zona di ponente consentirebbe il collegamento con l’infrastrutturazione ferroviaria con fuoriuscita dal nodo aeroportuale alla stazione ferroviaria di Sestri Ponente e con l’infrastrutturazione viaria con fuoriuscita dal nodo aeroportuale allo svincolo autostradale di Genova aeroporto.

A conclusione possiamo dire che l’esperienza internazionale sta dimostrando (e gli esempi di Rotterdam e Barcellona lo confermano) che in futuro solamente chi avrà creato le condizioni per operare nell’ambito di quelle grandi concentrazioni spaziali di imprese focalizzate sulla logistica identificabili con il termine di “distripark” godrà di una sicura posizione di vantaggio competitivo.

Per sfruttare inoltre tutte le potenzialità del territorio e creare opportunità per tutti i lavoratori appartenenti al settore logistico e dei trasporti genovesi occorre puntare sulla collocazione del distripark nella zona di ponente di Cornigliano. Il distripark dovrebbe diventare un punto nodale  per la creazione di posti di lavoro in una città in collasso e rappresenterebbe un’opportunità per tutti i settori legati al trasporto. L’elemento caratterizzante il distripark a ponente di Cornigliano offrirebbe il vantaggio di  mantenere la vocazione portuale di Genova (tra l’altro punto di orgoglio e di gloria storica per la popolazione genovese ) e consentirebbe di sostenere  il decollo ad esempio di settori poco apprezzati dalla cultura genovese ma di fondamentale importanza nell’economia globale come il trasporto aereo e quello ferroviario.

https://tinyurl.com/5anaaf83

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Territorio

Val Varenna da Riscoprire

di Francesca Pieri
Prendere l’auto e addentrarsi in Val Varenna può portare a sorprendenti scoperte. Lasciandosi alle spalle la costa, intaccata dal degrado dell’industrializzazione, il paesaggio cambia progressivamente mostrando un piacevole equilibrio tra case, antichi borghi e una natura a tratti impervia e selvaggia. Se la parte alta della valle mostra un paesaggio ancora quasi incontaminato, in cui l’affiorare delle rocce solo raramente lascia il posto a macchie boscose nell’incavo delle vallette di brevi rii, nel tratto più prossimo alla costa possiamo incontrare piccoli insediamenti che dal torrente hanno tratto la loro origine.

La particolare natura delle rocce, in grado di convogliare l’acqua in modo costante tutto l’anno, ha permesso la nascita di un considerevole numero di mulini e cartiere le cui ruote hanno caratterizzato il paesaggio umano e naturale di questo territorio nello scorrere di alcuni secoli. Le tracce di questi edifici, alle volte davvero imponenti, si sono progressivamente perdute, inizialmente abbandonate e poi trasformate per andare incontro alle mutate necessità dei tempi.

Ma qua e là ne troviamo traccia riconoscibile: nei ponti a schiena d’asino che numerosi attraversano il Varenna, nelle chiesette e cappelle in cui si riunivano le antiche comunità, nell’ultima ruota della cartiera di Carpenara che tenacemente testimonia un passato di cui altrimenti si perderebbe memoria.

Oggi prendere l’auto e addentrarsi nella valle permette di toccare con mano una trasformazione urbana e sociale le cui tracce nel territorio permangono in forme sempre più labili. Ma allo stesso tempo permette di ritrovare in un ambiente naturale che si è ripreso il suo spazio e che sta lentamente costruendo nuove identità

Francesca Pieri
Consigliere Comitato Val Varenna

https://tinyurl.com/bae9fetw

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Mostre

Circolo “Amici della Val Varenna” APS: inaugurata la mostra della Sezione Fotografica

Era il 2015 quando un gruppo di amici facenti parte del Comitato della Val Varenna, amanti della Farinata di ceci, vennero contattati da Oscar Farinetti per portare questo prodotto tipico di Pegli, all’EXPO 2015 di Milano all’interno del padiglione di EATALY, un sogno nel cassetto che mai avremmo pensato di poter realizzare.

di Carlo Carossino

Il Circolo

Una grande scommessa che grazie all’entusiasmo e alla passione di circa 50 volontari, siamo riusciti in meno di 1 settimana a far diventare realtà.

Due mesi (maggio e ottobre) trascorsi con squadre di volontari che si alternavano giornalmente, partendo da Genova all’alba per tornare il giorno dopo in piena notte. per far scoprire la farinata al mondo intero. Il riscontro è stato al di sopra di ogni aspettativa, lunghe e pazienti code hanno dimostrato l’interesse di persone di ogni età e provenienti da tutti i continenti.

Con i proventi donati da EATALY siamo riusciti a realizzare un altro sogno, un luogo dove incontrarsi per condividere momenti formativi e informativi rivolti a tutti i cittadini, riscoprendo e degustando piatti delle antiche tradizioni gastronomiche della valle.

Nasce così l’Associazione di Promozione Sociale il Circolo “Amici della Val Varenna”.

Anche questa una grande scommessa che parte dalla scelta di una sede situata a metà di una valle martoriata dalle numerose attività estrattive, un punto di notevole degrado ambientale abbandonato da tempo, per dimostrare che anche dal degrado si può rinascere e che il recupero di questo territorio può essere veicolo di una più ampia ripresa, riscoprendo meravigliosi angoli di natura incontaminata di cui è ricca la nostra valle.

La nuova sede è stata inaugurata il 15 Dicembre del 2017 è gestita esclusivamente dalla generosa disponibilità di tanti volontari.

La Mostra

Nel 2019 nasce la sezione fotografica guidata da Nadia Vicentini, una nuova esperienza che mette insieme esperti e dilettanti con un grande fattore comune, la passione per la fotografia.

Purtroppo, il COVID19 ha colpito duramente anche la nostra realtà associativa che però, proprio grazie alla sezione fotografica, e riuscita a mantenere un filo conduttore durante la pandemia mantenendo incontri settimanali svolti on-line dove i vari soci avevano la possibilità di condividere i lavori fatti sviluppando in piena autonomia i vari temi proposti settimanalmente. Insieme ad alcune uscite che siamo riusciti ad organizzare in piena sicurezza, è stato raccolto molto materiale fotografico contribuendo alla costante crescita di tutti i partecipanti.

Così, con l’avvio del nuovo anno sociale 2021/22 abbiamo realizzato la prima mostra fotografica dedicata alla nostra valle, bellissimi scorci a volte completamente sconosciuti, dove gli autori hanno espresso il meglio di sé stessi.

La mostra è stata inaugurata il 19 Novembre presso la sede del nostro circolo; rimarrà aperta il venerdì e il sabato dalle ore 17:00 alle ore 19:00 per tutti coloro che vogliono riscoprire il nostro bellissimo territorio.

Carlo Carossino
Vice Presidente Circolo “Amici della Val Varena” APS

 “Il Cammino della Farinata“, questo percorso passa infatti davanti al Mulino che produce la farina di ceci e termina presso la nostra sede, dove è presente il forno a legna che utilizziamo nelle nostre iniziative. In questo video riportiamo un’anteprima del percorso, in ogni punto indicato abbiamo posizionato un cartello dove vengono riportate foto e qualche curiosità storica sul luogo.
Fonte: https://www.facebook.com/AmiciValVarenna

https://tinyurl.com/74ujzcm7

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Incontri

Ritorna la tradizionale visita dei Carlofortini a Pegli

Foto di Gruppo dopo la funzione della Santa Messa Solenne celebrata presso la Chiesa di S.Maria Immacolata e S.Marziano di Pegli

Incontri: Ritorna la tradizionale visita dei Carlofortini a Pegli
Dopo lo stop di un anno, dovuto all’emergenza Covid, ritornano i tradizionali incontri con la comunità tabarchina di Carloforte, in occasione della festività della Madonna dello Schiavo patrona della comunità carlofortina.

La tradizionale Santa Messa Solenne celebrata nella Chiesa di S.Maria Immacolata e S.Marziano, dove si custodisce la riproduzione del simulacro donata da Carloforte nel 1967, ha visto la partecipazione di numerosi pegliesi che si sono raccolti in preghiera assieme ai fratelli carlofortini.

Nutrita la rappresentanza istituzionale che, oltre al Sindaco di Genova Bucci, ha visto la presenza del Presidente del Municipio VII-Ponente Claudio Chiarotti, dell’assessore al commercio del Comune di Genova Paola Bordilli, il Consigliere del Comune di Genova Mauro Avvenente, l’assessore all’urbanistica e al turismo del Municipo VII-Ponente Matteo Frulio.

Presenti anche i presidenti delle Pro Loco di Pegli, Milly Pastorino e di Carloforte Gianni Repetto, che ha donato al Sindaco di Genova la riproduzione di una stampa di Carloforte antica e una pubblicazione sul periodo di schiavitù dei carlofortini. La parrocchia San Carlo Borromeo di Carloforte, nella figura del parroco don Andrea Zucca che ha concelebrato la Santa Messa, ha donato al Sindaco una ceramica con l’effige della Madonna dello Schiavo. Alla messa dell’Immacolata era presente il priore dell’ Arciconfraternita di San Naziario e Celso di Multedo, Emanuele Montaldo, l’Arciconfaternita ha storicamente legami profondi con la comunità tabarchina e negli ultimi tempi sono stati ancor più rinsaldati

Foto di gruppo presso l’Oratorio dei SS. Nazario e Celso Di Multedo

In mattinata la delegazione di Carloforte aveva partecipato alla celebrazione presso l’oratorio di San Nazario e Celso di Multedo, la cui arciconfraternita a Carloforte aveva, lo scorso mese nell‘Isola di San Pietro, consegnato ai Cristezzanti di Carloforte il Cristo processionale interamente realizzato in Liguria.

Nella foto di sinistra Il priore Emanuele Montaldo con il Parroco di Carloforte e quello di Multedo ed Efisio Napoli, in rappresentanza dei Cristezzanti di Carloforte, in quelle di destra momenti della vista dei Carlofortini all’oratorio di Multedo.

I Carlofortini hanno cosi potuto apprezzare i lavori di restauro, giunti alle battute finali. fatti per ridare l’antica bellezza agli affreschi che adornano l’oratorio di Multedo.


Così descrive l’evento il Priore dell’Arciconfraternita dei SS.Nazario e Celso, Emanuele Montaldo:

Domenica 21 novembre una parte della comunità di Carloforte, con la PRO-LOCO guidata da Gianni Repetto , accolta dalla Confraternita, dal Comitato di Quartiere, dal Circolo e dal parroco Padre Giuseppe, ha visitato l’Oratorio dei SS. NAZARIO e CELSO appena “liberato” dai ponteggi. Al termine della Messa concelebrata dal parroco di San Carlo in Carloforte don Andrea, abbiamo rivissuto con Efisio Napoli la consegna della foto donata dal gruppo Cristezzanti Carloforte alla ns. Confraternita in occasione della consegna del Cristo Tabarkino. Alla visita hanno partecipato numerose persone della PRO-LOCO di Pegli, con l’attivissima Milly Pastorino e le principali autorità, dal consigliere comunale Mauro Avvenente , dal nostro Municipio VII Genova Ponente , con il Presidente Claudio Chiarotti ed il ns. Assessore Matteo Frulio . Ringrazio infine le nostre Signore che hanno predisposto il rinfresco con la focaccia dei CIOI Michela Bruzzone e le torte di Marina Fassone

Quella di Domenica è stata l’ennesima testimonianza dei contatti tra le comunità di Pegli e Carloforte che da anni si muovono su più fronti: istituzionali, religiosi, culturali: contatti che spessissimo sfociano in rapporti interpersonali di grande amicizia, a rimarcare una “continuità” che non teme nè tempo ne distanze.

https://tinyurl.com/355faw5f

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Associazioni & Comitati

Comitato Pegli Bene Comune: ripulite le scritte sui muri del ponte di via Piandilucco

Lo annuncia il comitato in un post sulla loro pagina FB giovedi 11 novembre “Oggi il Comitato Pegli Bene Comune i ragazzi L.S.U. ex Ilva e alcuni cittadini hanno terminato l’intervento di rimozione delle scritte sui muri del ponte di via Piandilucco . Un ringraziamento di cuore a quella carissima signora che ci ha rifoccillati regalandoci un vassoio di focaccia( che prima della foto era pieno ) è a quel signore che voleva offrirci da bere…..fa piacere sapere di avere sostegno. Nella speranza che il lavoro duri e che chi deve scrivere lo faccia su dei fogli o in zone appositamente create vi diamo appuntamento al prossimo intervento.”

Così Laura Michelini, presidente del Comitato spiega in una intervista a  Genova Today:

Abbiamo iniziato la nostra attività otto anni fa con lo scopo di proteggere le spiagge di Pegli da un progetto, poi accantonato, che minacciava la balneabilità. Abbiamo quindi pensato di dedicarci ad attività di volontariato e sensibilizzazione al rispetto per il bene pubblico. Periodicamente ci occupiamo della pulizia di spiagge e giardini e abbiamo diversi patti di collaborazione con il Municipio,anche per attività di presidio e manutenzione. Nel nostro gruppo ci sono persone di tutte le età, dai più giovani ai pensionati, coordiniamo anche un piccolo gruppo di cassaintegrati ex Ilva che ci danno una grossa mano nelle attività per il quartiere. Noi ci occupiamo dell’organizzazione e dei materiali e loro realizzano interventi più o meno grandi, quello di via Piandilucco è stato uno dei più complessi, è durato due giorni ma ha avuto bisogno di tutta una fase di organizzazione precedente. Collaboriamo anche con le altre associazioni del territorio per promuovere l’integrazione e il rispetto per il bene pubblico“.

https://tinyurl.com/6xy55ryr

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Associazioni & Comitati

Autoparco a multedo? No grazie!!! No alla realizzazione di un autoparco per mezzi pesanti

Autoparco a multedo? No grazie!!! No alla realizzazione di un autoparco per mezzi pesanti

Associazione Comitato di Quartiere di Multedo ha lanciato questa petizione e l’ha diretta a: Marco Bucci (Sindaco di Genova), Autostrade per l’Italia S.p.a ed E.N.I S.p.a

No alla realizzazione di un autoparco per i mezzi pesanti nell’area di Fondega Sud, a Multedo. Come Associazione Comitato di Quartiere di Multedo, in collaborazione con i comitati Pegli Bene Comune, Val Varenna e Via Cassanello, siamo a proporre questa raccolta di firme, per opporci, con fermezza, all’ennesima servitù che andrebbe a gravitare sul nostro territorio. 
Viviamo da anni sotto l’ubriacatura continua di promesse disattese, a cominciare dallo spostamento di Carmagnani e Superba, e non possiamo non notare, con estremo disappunto, come certe decisioni vengano calate dall’alto, senza il minimo confronto con il territorio, a partire dai rappresentanti municipali, per poi passare ai comitati “veri” (e non a quelli fittizi, dannosi ancor più che inutili) e ai cittadini.
Non sappiamo nulla su che cosa verrà tolto a Multedo (i depositi costieri dove andranno a finire? Sono cinque anni che aspettiamo dal Sindaco una sua versione), sappiamo sin troppo su che cosa arriverà. La realizzazione del nuovo casello autostradale, prevista nell’ambito delle opere risarcitorie su cui si è impegnata Autostrade verso la città di Genova dopo il crollo del Ponte Morandi, non può e non deve andare di pari passo con la sistemazione di un autoparco che andrebbe ulteriormente a turbare la già fragile tranquillità del quartiere e che, per giunta, verrebbe a trovarsi ad appena dieci metri da una casa di riposo per anziani.

La petizione, che mira a ottenere 500 firme, al momento ne conta 371

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E pòule/Le parole

Ciæto

di Fiorenzo Toso

La parola “ciæto” oggi vuol dire essenzialmente ‘pettegolezzo malevolo’, ‘diceria senza fondamento’. Questa voce tipicamente ligure continua il latino PLACITUM ‘parere’ e ‘contesa legale’, trovando corrispondenza nell’italiano “piato” e nello spagnolo “pleito” che significano ambedue ‘lite’: la cosa potrà sembrare strana a qualcuno, ma non dimentichiamo che in genovese le voci che in latino iniziano per PL- modificano sistematicamente questo nesso consonantico in “c(i)-“, come avviene per PLANU che dà “cian”, PLATTU che passa a “ciatto”, PLICARE che diventa “cegâ” e così via. Ma come si è passati dal valore di ‘contesa’ (presente anche nella magistratura medievale genovese dei “Consoli del Placiti”, una sorta di giudici di pace) a quello tutto nostro di ‘pettegolezzo’? Nel latino medievale ligure “ciatum” ha sempre il valore di ‘processo, lite’, e così le varie forme che si ritrovano alla fine del Duecento nell’Anonimo Genovese.

Il significato di ‘pettegolezzo’ ne è una logica evoluzione, dovuta al fatto che le liti e le cause generano spesso e volentieri maldicenze: esso non compare prima del Seicento (1655, “me ra passo in cieti” ‘passo il tempo a spettegolare’, Spinola), ma nel Settecento il valore prevalente della parola era ancora quello di ‘lite, causa legale’, che si conservò a lungo: persino la sollevazione popolare contro gli austriaci viene definita nel 1745 “ro ciæto de Portoria”, ossia ‘la lite scoppiata a Portoria’, e ancora nel 1851 Casaccia traduce il termine anzitutto come ‘briga che mena lagnanza e romore’ e secondariamente come ‘fatto o faccenda’; nell’edizione successiva del suo vocabolario (1876) compare per la prima volta lo schietto valore di ‘pettegolezzo’, destinato però a essere considerato quello principale solo a partire dal vocabolario del Gismondi nel 1951. A proposito di “ciæti”, qualche buontempone ha messo in giro tempo fa l’ipotesi che l’inglese “chat”, ossia ‘chiacchiera’, derivi dal termine genovese. La lingua inglese ci deve qualcosa, è vero, ma non questo termine che, documentato tra il Quattro e il Cinquecento, ha in realtà solide e riconosciute parentele in altre lingue germaniche, e che attraverso il verbo antico-inglese “chatteren” ‘cinguettare’ viene fatto risalire alla stessa origine espressiva dell’olandese “koeteren” e del danese “kvidre”. Nella foto: il diavoletto tutto contento si appresta a riportare un clamoroso ciæto su Sua Eminenza.

(fonte: https://www.facebook.com/fiorenzo.toso)

Fiorenzo Toso

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Ponente d’oltremare

La cucina carlofortina, specchio e riflesso della storia e delle tradizioni della comunità

Nicolo Capriata, carlofortino, cultore e studioso della storia, tradizione e cultura tabarchine ma soprattutto amico di Pegli e dei pegliesi, purtroppo ci ha lasciati il 10 settembre scorso. Con lui, come Circolo Culturale Sopranzi, ma soprattutto come singole persone, avevamo intessuto rapporti di sincera amicizia e stretta collaborazione. Numerosi i suoi interventi ai congressi ed eventi, riguardanti la tabarchinità, ma non solo, svoltesi a Pegli, specie per le “Giornate Storiche Pegliesi”. E’ da quella tenutasi nel 2018, dedicata alla Gastronomia tabarchina che abbiamo estrapolato l’intervento che segue.
Pubblicheremo spesso testi di Nicolo o articoli che lo riguardano, è il nostro modo per dirgli che tutto ciò che ha fatto per la cultura tabarchina, e i rapporti tra le nostre comunità, sono tasselli preziosi, valori, esempi che ci arricchiscono e ci indicano la strada su come fare divulgazione, con serietà e umiltà, come lui non ha mai messo di insegnare.
La redazione de IL PONENTINO


di Nicolo Capriata

Presidente Associazione Culturale Saphyrina Carloforte

“La cucina di una società è il linguaggio nella quale essa traduce inconsciamente la sua struttura” ha scritto Claude Levi Strauss. Viene quasi da pensare che quando espresse questo concetto il noto antropologo francese si trovasse a Carloforte. Nulla di più esatto, infatti, per chi conosce gli usi e le abitudini gastronomiche degli isolani di San Pietro. La cucina della comunità carlofortina è di fatto il fedele riflesso delle vicende storiche, delle esperienze lavorative e dello sviluppo socio-economico che l’hanno at- traversata. Fare un tuffo nelle pietanze carlofortine, per esempio, significa immergere il palato anche in cibi che testimoniano la loro origine ligure e il loro trascorso magrebino, a Tabarca. “Carloforte è terra di cucina genovese” scrisse in un memorabile articolo (Le dieci bellezze di Carloforte) il grande giornalista genovese Giovanni Ansaldo nel 1953 “Più di quanto sia ormai la stessa Genova e dove non c’è che ordinare a minestra col pesto per vedersela servita”.

A parte l’immancabile pasta al pesto, i carlofortini dai loro antenati pegliesi hanno conservato nella loro alimentazione la “fainò”, farinata, inevitabilmente presente in ogni scampagnata e che fino alla prima metà del secolo scorso veniva venduta per i caruggi dai ragazzini, così come accadeva nei caruggi di Genova, e la fügassa che è la focaccia genovese. Per non parlare del zemin de sciaxi, zemino di ceci, pietanza retaggio di un’antichissima cucina ligu- re. Ma i carlofortini, come gli amici calasettani e spagnoli di “Nueva Tabarca” per quasi due secoli sono vissuti a Tabarca. Quando hanno abbando- nato lo “scoglio” africano per approdare in nuove isole, nei bauli della loro memoria oltre all’antico ricettario genovese hanno riposto una nuova ricetta culinaria, il couscous, che hanno chiamato nella loro lingua cascà, diventato subito uno dei piatti principe della loro rinomata e tradizionale cucina.

Cascà

Dal Maghreb si sono portati anche i semi di un ortaggio, fakus in arabo, facussa in tabarchino, che accompagna nella stagione estiva tutti i loro antipasti a base di tonno. Ecco, il tonno cotto in mille modi e con mille salse è il protagonista di un ricettario altrettanto blasonato che trae origine dalla pesca di questo pesce che i carlofortini hanno sapientemente praticato, prima lungo la costa tunisina e poi in San Pietro.

Farinata –Fainò

I carlofortini non furono solamente pescatori di tonni, aragoste e coralli, ma in virtù delle loro origini liguri furono anche abili e capaci marinai e nei loro viaggi in lungo e in largo per il Mediterraneo a bordo delle loro bilancelle non mancavano le gallette, confezionate per essere con- servate a lungo. Oggi le gallette che sono in vendita in ogni panetteria isolana, sono particolarmente utiliz- zate nella capunadda, altra pietanza tradizionale della cucina isolana che manco a dirlo è anche tipica del- la cucina genovese. C’è ancora da aggiungere che spesso il lavoro di un uomo è la sua cucina perché a questo adegua la sua alimentazione. Gli alimenti che accompagnavano nei loro viaggi i marinai carlofortini, al pari delle gallette erano a lunga conservazione come il tonno conservato sotto sale, in particolare la tuniña, il baccalà, lo stoccafisso.

Bobba

Cibi che imbandivano anche la tavola di chi rimaneva a casa, oggi rinomati e “costosi” ma allora con- siderati semplici e “poveri” e che quindi non gravavano più di tanto sul bilancio familiare. E povera era anche la “bobba” minestra di fave secche che la cottura rende cremosa, ed ora è invece una squisitezza culinaria ricercata dai buongustai. Ed è in questo contesto di origini e di storia, dove le radici sono ben marcate, di lavoro e di abitudini, che la gastronomia carlofortina, si è affermata diventando un’autentica delizia del palato per viaggiatori e buongustai. Ma soprattutto la cucina isolana è un retaggio di sapori e saperi mediterranei da annoverare nella caratteristica quanto singolare cultura tabarchina. Un patrimonio da custodire gelosamente e da trasmettere intatto alle generazioni future.

I modi di dire carlofortini… a tavola

Se ricca e variegata è la cucina carlofortina altrettanto considerevole e originale è la fraseologia che le fa, è il caso di dire, da contorno. Tra le duemila e più locuzioni e modi di dire della lingua tabarchi- na, non pochi prendono spunto dai piatti tradizionali ma anche dagli atteggiamenti e dalle considerazioni che i carlofortini han- no al riguardo dei cibi. Come per il tonno, piatto apprezzato della loro alimentazione e del quale ogni parte si mangia e per il quale di sovente dicono du tunnu tüttu l’è bun (del tonno tutto è buono).

Pasta con il tonno

Ma buono per i carlofortini è anche qualsiasi frittura: fritu tüttu l’è bun, fiña i pé da tóa (a söa de scorpe, e patte dell’àncua), fritto tutto è buono perfino i piedi del tavolo (la suola delle scarpe, le braccia dell’ancora). Non mancano poi gli apprezzamenti come u l’è in bucun da preve (è un boccone da prete) o anò inte unge di pé (andare nelle unghie dei piedi) quando una bevanda un pasto o una pietanza sono stati particolarmente graditi e gustati. Naturalmente non mancano le proposizioni sull’altra pietanza storica il cascà, il couscous tabarchino. Per dire a qualcuno, tra il serio e il faceto, che non si vorrebbe avere tra i piedi gli si apostrofa ti vegnisci u giurnu du cascà! (verresti il giorno del cascà!) in pratica una volta all’anno. Era tradizione un tempo consolidata che in ogni famiglia carlofortina il cascà si dovesse preparare (quasi obbligatoriamente) il 4 novembre, festività di San Carlo patrono di Carloforte.

Ma a il cascà a differenza di quanto si potrebbe percepire dall’espressione su menzionata, si cucinava (e si cucina) frequentemente e per il suo carattere di convivialità spesso si consuma in famiglie allargate a nonni, zii nipoti e cugini. Forse è da questi festosi banchetti che è nata l’espressione dóppu sette tundi de cascà u s’accortu cu l’éa fattu (dopo sette piatti di cascà si è accorto che era insipido), che ha il significato di dire che qualcuno si è avveduto in ritardo di un qualcosa o per troppa distrazione o per poca acutezza. In tabarchino con il termine cascà si intende sia la pietanza che la cuscusseria, sorta di pentola di forma leggermente sferica forata e in terracotta. Ebbene quasi a testimonianza della frequente pratica che gli isolani hanno con questo cibo, per una persona che ha la testa molto grossa dicono appunto u l’ha tésta cumme’ n cascà.

Cuscusseria-Cascà

Un’altra originalissima pietanza della cucina tabarchina, una minestra cremosa a base di fave secche, la bóbba, annoverata tra i piatti storici e prelibati della gastronomia isolana, è entrata a buon diritto in diverse locuzioni tabarchine. “Ciütóstu che bóbba avansa crépi pansa” (piut- tosto che far restare la bóbba che crepi la pan- cia) recita una di queste proposizioni, che tra l’altro rimarca un concetto molto caro ai car- lofortini: evitare assolutamente qualsiasi spre- co ed in particolare quelli alimentari. Ci sono poi espressioni sulla bóbba che ci riportano indietro, in un mondo semplice e antico che purtroppo ormai è svanito. Come, “cusse ti gh’è a bóbba in sciû fögu”? (cos’hai la bóbba sul fuo- co?), frase sinonimica di “che fretta hai” che veniva proferita nel corso di un occasionale incontro per la strada tra comari, quando una di loro faceva intendere di lasciare la conversazione. O anche vanni bellu in cà ch’a mamma a l’ha fetu a bóbba (bambino vai a casa che la mamma ha cotto la bóbba) espressione con la quale si invitavano, senza troppi raggiri, i bambini a togliersi di mezzo. Non mancano consigli gastronomici nella paremiologia tabarchina. Gh’ö ciû dróghe ch’a tratüga (ci vogliono più spezie che per la tartaruga) per esempio. La tartaruga che sicuramente dai primi coloni veniva cucinata e mangiata ha bisogno di abbondanti aromi per acquistare un po’ di sapore. Da qui il detto che si dice quando per compiere una qualsiasi azione occorrono molti preparativi, ottenendo dei risultati che non sempre valgono o giustificano l’impegno profuso.

Mangiare bene piace a tutti ma a volte è costoso e non tutti i cibi ne motivano la spesa. Ecco quindi un suggerimento. “Âguste e granci asè spàiza e pócu mangi” (aragoste e granchi spendi assai ma poco mangi) perché i crostacei sono buoni ma costosi tra l’altro buona parte del loro peso è dovuto al carapace, ammonisce il detto. Le pietanze sono utilizzate anche per esprimere compiacenza oppure disappunto. Mangiò raiö (mangiare ravioli) e Culò paste cua crèma (mangiare paste con la crema) sono due locuzioni che hanno il medesimo significato: provare soddisfazione quando ad un antagonista, ad un rivale è anda- to qualcosa di storto, soprattutto se riguarda il motivo dell’avversione. Il disagio e il rincresci- mento viene manifestato attraverso avài a faccia stiò cumme’n curzéttu (avere il viso stiracchiato come un curzéttu).

Curzétti

I curzétti sono una tipica pasta fatta in casa simile alle “orecchiette” che le brave massaie confezionano “stirandole” con il pollice pezzo per pezzo. Con questa locuzione si indica l’espressione tesa e un po’ nervosa che assume il viso di chi sa dentro di sé di meritare i rimproveri o le accuse che in quel momento gli vengono rivolti, oppure di chi è stato col- to nel fatto nel compimento di un’azione poco lodevole.

Prima di concludere questo brevissimo e incompleto florilegio sulle originali espressioni degli isolani derivanti dalle loro abitudini alimentari, ecco velocemente alcuni motti: cruò a stissa (letteralmente cascare la goccia) che ha il significato di avere l’acquolina in bocca, a l’è égua du lesciassu (è acqua del ranno) per vino non buono, u l’è fattu cumme a lescìa (è insipido come la liscivia) per cibo insipido, che non sa di nulla. E ancora, pé cunusce ’na persuña bezögna mangioghe na sorma de só insemme per conoscere una persona (a fondo) bisogna mangiarci assieme una salma di sale, o il comunissimo sun fregügge càite da tóa, sono bricciole cadute dal tavolo, per sottolineare che certi commenti o giudizi sono stati “raccolti” nell’ambito familiare. Un ultimo consiglio tèsta de crova, cua de mueña e legnu de figu nu se pö invitò ’n’amigu (testa di capra, coda di murena e legno di fico non si può invitare un amico). E’ un invito a trattare con riguardo i propri ospiti perché come ammonisce il proverbio nella testa di capra non c’è granché da mangiare, la coda della morena è fatta di sole spine e il legno del fico non è adatto a fare la brace per cuocere il cibo. Gli ospiti si devono accogliere con affetto e amicizia e con tutte le cure e attenzioni.

La Gastronomia Tabarchina – Copyright © 2018 di Circolo Culturale Norberto Sopranzi – Genova Pegli, via Martiri della
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Nicolo Capriata
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Libri

“Antologia Tabarchina alla Spoon River” di Nicolo Capriata (Fausto lupetti editore, 2021)

“Lo confesso: questo piccolo scritto non lo volevo pubblicare, volevo lasciarlo nel cassetto del mio privato, per mia intima soddisfazione. Tant’è che di questo mio “vezzo” ne erano informati solamente mia moglie Luciana, mia musa consigliera, e il mio fraterno amico Checco. Invece, tralasciando l’occasione, il modo e il perché, mi trovo ora tra le mani di questa Antologia tabarchina alla Spoon River.”

Così scrive Nicolo Capriata all’inizio del capitolo “Alcune cose da sapere” che apre il suo volumetto pubblicato postumo. Ed è una fortuna che abbia cambiato idea, che ci abbia lasciato questa sua ennesima “perla” letteraria sulla tabarchinità.

Pensavamo che il suo libro sui proverbi e modi in tabarchino di Carloforte, lungo lavoro di ricerca durato 10 anni, fosse il suo ultimo regalo, una sorta di atto testamentario per i tanti che lo hanno amato e seguito nella sua opera di divulgazione e ricerca storia. Invece Nicolo ci riservava una sorpresa, nel momento che ci lasciava un alto lavoro era già stato dato alle stampe.

Nicolo Capriata si rifà alla celebre opera di Lee Masters, e, come lui ha fatto immaginando il paese di Sponn River, traduce in parole i pensieri di personaggi noti e meno noti. Solo che questa volta il paese è reale: Carloforte, si tratta di persone che in esso hanno vissuto, in epoche diverse, e ne hanno fatto o subito la storia e le vicende. Un mix, tra la profonda conoscenza della storia carlofortina del cultore e ricercatore storico, e la passione che l’autore ha da sempre nutrito per l’Antologia di Spoon River. Una raccolta di pensieri profondi , che disegnano i personaggi da un punto di vista profondamente umano.

Ho letto il libro, che ha la traduzione a fronte in tabarchino ad opera di Maria Carla Sicilano, tutto d’un fiato, immergendomi nelle parole, ritrovando in esse tutta l’umanità di Nicolo, il suo raccontare allo stesso modo la gente comune, cosi come i grandi personaggi della storia di Carloforte. Dando la stessa importanza sia agli uni che agli altri, tutti artefici di ciò che Carloforte è stata ed è. Addirittura facendo dire al Ras Muhamud Rumeli, alto dignitario della corte del Bey, che comandò e guidò l’azione del saccheggio di Carloforte nel 1798: Col dolore io vi ho portato la fede e la gloria. Dovreste essermi riconoscenti

In questa antologia, come in quella di Spoon River, c’è una scelta “democratica” riguardo ai protagonisti. Mettendo assieme gli eroi e i pavidi, i cattivi e i buoni, il Re e il galanziere, il saggio e il folle, il professore e l’imbonitore, ci viene detto che la “Storia”, è figlia di tante piccole storie, e che tutti i suoi protagonisti hanno eguale importanza. Per cui la ricerca e lo studio, specie dell’epopea tabarchina, non possono prescindere da questo. In fondo è quello che Nicolo Capriata ha sempre insegnato con la sua opera di ricerca e divulgazione.

Credo si possa affermare che questo è uno dei lavori che più rappresenta Nicolo Capriata, culturalmente e ancor più umanamente. Ci sono sia le sue ricerche che i suoi valori…e sono entrambi preziosi.

Aver dato “voce” a personaggi che già ci aveva raccontato dal punto di vista storico li rende “vivi”, crea una sorta di ponte tra noi e loro, tra vivi e morti. Ce lo suggerisce anche l’autore quando a uno dei personaggi fa dire “Spesso la morte unisce più che saperare”.

Ecco, “Antologia tabarchina alla Spoon River” è molto di più di quello che è, o almeno di ciò che a prima vista appare .
Nicolo attraverso questa antologia ci “raccomanda” delle cose, ci dà lezioni di vita e di approccio alla storia ella ricerca della cultura tabarchina, ma ci rimprovera anche, ci dice che abbiamo dimenticato persone che tanto hanno fatto per questa. Quasi un monito a non dimenticare anche lui?
C’è una cosa che accomuna tra loro tutti i personaggi dell’antologia, e accomuna loro all’autore, traspare in ogni profilo, da quello più nobile a quello più popolano, ed è l’umiltà.

A chi prende tra le mani il libro si accorge che note introduttive, prefazione, ringraziamenti, sono tutti scritti come se Nicolo Capriata fosse ancora in vita e non ci avesse lasciato qualche mese fa. Una scelta editoriale che condividiamo e apprezziamo, perché persone come Nicolo saranno sempre tenute in vita da chi li ha amate, li ama e le amerà, da chi ha il apprezzato il loro lavoro e ha seguito i loro insegnamenti fatti spesso solo di silenziosi esempi.

Vogliamo chiudere con la parte finale del pezzo dedicato a Enzo Cabulla, anche lui cultore della tabarchinità recentemente scomparso, perché sono parole che possiamo tranquillamente associare al loro autore. Queste sono parole che Nicolo, salutandoci, rivolge direttamente a tutti noi, cultori della tabarchinità e a nostra volta divulgatori, esortandoci a continuare la sua opera, la sua missione, perchè, come amava citare: “Non c’è da scommettere un soldo sul futuro di un popolo che non abbia rispetto del suo passato” (Claude Antoine Pascal)

[…] Avete fatto scrivere sulla mia lapide: “Amava e diffuse a tutti la tabarchinità”. E’ stata la missione della mia vita. Qui dal cielo lo vorrei gridare a squarciagola, far imprimere su tutti la tabarchinità. Il futuro di un paese, come quello di un uomo, risiede nella sua cultura.

A Nicolo che sulla copia che mi ha donato del suo ultimo lavoro letterario, pubblicato in vita, firmandomelo vi scrisse “Viva la Tabarchinità

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Il cibo: le tradizioni, il territorio

Non sono solo castagne

Quasi ogni giorno l’abito arboreo si trasforma e ci regala l’incanto di un paesaggio diverso e di nuove emozioni. Per i più l’autunno è questo: aria fresca, cieli tersi e il sole che via via si abbassa sull’orizzonte e illumina il mondo con una luce radente, ideale per esaltare lo spettacolo della natura

di Sergio Rossi

Credo sia stato sempre così, ma per chi viveva sui ripidi versanti liguri, appena dietro il primo crinale appenninico, e oltre, fin quasi alla pianura, le speranze dovevano trasformarsi in raccolto, il raccolto delle castagne. Un anno senza castagne era una sciagura immane per quella gente; un anno da castagne era una festa. Gran parte della povera economia di quei monti si basava sui frutti dell’Albero, l’albero per eccellenza, quello che bastava dire “erbu” per indicare la “pianta del pane”. Per secoli le mille declinazioni della castagna hanno costituito la base dell’alimentazione rurale dell’entroterra ligure, integrate, come possibile, da pochi cereali e solo in seguito da patate e mais. Un vecchio negoziante di campagna ripeteva sempre le parole di sua nonna, la quale raccontava che il raccolto delle castagne condizionava la vita di quei monti e l’aspetto della gente.

Verso la fine dell’inverno, osservando se i contadini erano magri o grassi, si capiva se il raccolto autunnale era stato scarso o abbondante. Cose impensabili ai nostri giorni, che tuttavia non possono passare inosservate. Quella risorsa che fino a qualche decennio fa era vitale oggi è in gran parte sprecata, lasciata ai cinghiali, che ingrassano e affinano le proprie carni.
All’appuntamento col bosco autunnale mancano in pochi, i castagneti si rianimano di piccole e grandi comitive mosse da un unico fine: raccogliere la classica “borsina” di castagne. Se ci scappa anche qualche fungo tanto di guadagnato, ma i più non sono così attenti conoscitori del patrimonio micologico ed è molto meglio se si accontentano di quel po’ di castagne per fare le caldarroste o da lasciar marcire in casa, finendo col gettarle nell’immondizia.

Ma i boschi non sono tutti comodi, a portata di automobile, e basta allontanarsi un poco e frequentare i luoghi appena marginali, per vedere lo spreco che ogni autunno di ripete. Che l’annata sia abbondante o meno, ogni stagione succede la stessa cosa: ci si inoltra in un castagneto e si finisce per camminare letteralmente sulle castagne. E allora capita di fermarsi un momento a riflettere, e osservando quella coltre di sottili spine che protegge i preziosi frutti, il pensiero torna ai racconti di Eraldo e della sua nonna, alle attese per il raccolto e alle ansie per l’inverno. Il solo pensiero che ciò che oggi calpestiamo sia stato l’alimento base di intere generazioni, non può che lasciare sgomenti. Cosa penserebbero quei contadini se ci vedessero oltraggiare il frutto delle loro fatiche, la fonte principale del loro sostentamento, il loro pane quotidiano? È perfino difficile immaginare quale sarebbe la loro reazione, forse un sentimento iniziale che sta fra lo stupore e l’incredulità ma che presto si trasforma in rabbia: qualcosa che fa contorcere le budella e stimola la collera.
Così, quel bosco di castagni ci apparirà completamente diverso; anziché sembrare la selva abbandonata che spesso ci si presenta di fronte, ci accorgeremo che oltre quel primo impatto c’è molto di più. Capiremo che quel bosco non è nato così; quei castagni li ha piantati qualcuno che li ha innestati, li ha curati e dopo qualche anno ha cominciato a raccoglierne i frutti. Qualcuno con le mani callose, che si è spaccato la schiena per tentare di conquistare quel tanto che bastasse per sfamare la sua famiglia. Qualcuno che di quel bosco non sprecava proprio nulla, altro che calpestare le castagne. Perfino i ricci servivano per accendere il fuoco e le foglie per fare il letto alle vacche. Ed ecco che quelle cascine diroccate, ridotte ad un cumulo di pietre, riacquisteranno la loro dignità e cominceremo a capire il mondo che le ha create, la civiltà che le ha usate e custodite, il ciclo che le ha rese necessarie proprio lì, nel mezzo di un bosco marginale, lontano dalla nostra comoda auto e immerso in quel che prima ci pareva il nulla insensato, la natura selvaggia, che di selvaggio ha solo i rovi e l’abbandono degli ultimi decenni, nient’altro.

Di selvaggio lì non c’è proprio nulla; quella era la terra di qualcuno, quella terra da cui egli traeva il proprio sostentamento, ciò che serviva per sopravvivere e che quasi sempre, purtroppo, non bastava.
E allora quelle castagne? Che cosa ne vogliamo fare, vogliamo sempre calpestarle o vale la pena di ripensarci un momento?

Quel bosco appartiene comunque a qualcuno e bene o male  molti di noi, ogni anno, “rubano” quella famosa borsina di castagne senza la quale non sappiamo stare. Ma se quel bosco è abbandonato all’incuria, che differenza fa se chiunque di noi si prende quattro manciate di castagne che marcirebbero? Nessuna, in realtà, ma la differenza sta nel perché dobbiamo sprecare tutto quel cibo, di chiunque sia. Il problema non  è giuridico – chi prende qualcosa che non è suo – ma politico – cosa fare per evitare lo spreco -. Chi ha una soluzione efficace e realizzabile la proponga alla svelta che fa un regalo a tutti.
Non so se si potrà trovare un rimedio a breve, se c’è un problema che oggi non ci affligge è proprio la scarsità del cibo. Semmai è vero il contrario, mangiamo troppo e talvolta male, eppure non passa giorno che non si senta parlare mille volte di risorse a chilometro zero, di prodotti locali, di recupero produttivo del nostro entroterra, di “sostenibilità” – che termine odioso – e di cucina tradizionale.

In questa generale e schizofrenica ipocrisia sguazziamo quotidianamente ma poi andiamo a calpestare centinaia di migliaia di euro che altrove sanno raccogliere e trasformare in CIBO! E non c’è bisogno di fare tanta strada per trovare esempi concreti, solo che occorre uno sforzo comune per ottenere un minimo di risultati. Già, perché se c’è chi si prende la briga di fare questo lavoro e recuperare quei prodotti, poi occorre che qualcuno li compri, e soprattutto capisca che cosa farsene, come prepararli o direttamente mangiarli.
Ed ecco entrare in gioco la ristorazione, che ha un ruolo chiave in questi processi. Com’è possibile che in certe zone nelle quali si percorrono chilometri in mezzo ai castagneti ci si fermi a mangiare e non ci sia verso di sentirsi proporre una castagna? È un po’ come se nelle Langhe non proponessero il vino a tavola. Capisco che il paragone sia forte ma se solo si fa un giro nelle zone interne della Corsica, si capisce perfettamente quale economia possa ruotare attorno al castagno e ai suoi frutti.

Nelle aree marginali, piccoli negozi specializzati propongono una serie impressionante di prodotti derivati dalla castagna, dalla farina ai biscotti, dalle torte alla birra, dalle paste alle castagne secche, e questo solo per quanto concerne i prodotti alimentari. Non parliamo poi dei saponi, delle candele, degli oggetti in legno, eccetera. Insomma una scelta straordinaria che non consente di lasciare il negozio senza aver acquistato almeno un prodotto, un ricordo, un souvenir.
Tralascio l’annosa questione dei maiali allevati allo stato brado nei castagneti; in Corsica si fa e dà ottimi risultati.
Tornando alla ristorazione, il punto di forza sta proprio lì, nel raccontare a tavola le eccellenze di quel territorio, non solo per deliziare e soddisfare il cliente, ma anche per suscitare in lui la voglia di riprodurre a casa gli stessi sapori che avrà assaggiato. Sarà quasi impossibile, è vero, ma la voglia verrà lo stesso e occorrerà comprare i prodotti locali con i quali preparare quella ricetta. E in quel momento si realizzerà la vera promozione territoriale, fatta di emozioni vissute direttamente e di piacevoli ricordi da rivivere in luoghi diversi, in momenti diversi, a volte gustando un piatto o sorseggiando un vino.

Ecco che quel bosco di castagni non sarà più solo un bosco ma diventerà una coltura, un coltivo come un altro, un luogo dove si produce cibo, che per questo va protetto, curato e custodito.
Se raccogliamo qualche chilo di castagne, mangiamole tutte, facciamone trofie, caldarroste, dolci o qualunque altra preparazione, tradizionale o innovativa, ma che restituisca dignità a quel prodotto che ha nutrito molti dei nostri predecessori e in qualche modo a permesso anche a noi di essere qui.
(Prima pubblicazione articolo settembre 2010)

Sergio Rossi
Si occupa di storie e culture del cibo e della cucina. E’ stato direttore del Conservatorio delle Cucine Mediterranee di Genova, ha creato e curato l’Archivio per la Storia dell’Alimentazione Giovanni Rebora e ideato e curato i testi del blog ilcucinosofo.it
Vive e lavora fra Genova e l’entroterra genovese, indagando la cultura gastronomica delle comunità e le produzioni alimentari tradizionali italiane. Collabora con quotidiani, riviste e reti televisive.

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Romanzo a Puntate

La Forma della felicità
(di Antonello Rivano)

1.La promessa

       Pegli 1790

  -Allora è deciso.- Non è una domanda, Caterina sa già cosa dirà Nicola.

    – Sì, partiremo domani.- Sono sdraiati in una delle cuccette della barca, il loro nascondiglio segreto, celati agli occhi di chi ritiene la loro unione sconveniente, vista la loro differenza sociale: lei figlia di una lavandaia, lui di un commerciante armatore. Un luogo non certo comodo, spartano, fatto per alloggiare a malapena una persona. La barca è stata costruita per trasportare merce e tre o quattro membri d’equipaggio per brevi viaggi. Le due piccole cabine non sono state certo pensate per le effusioni amorose di due ragazzi. Per loro è un’oasi, quasi un mondo a parte, le misure ridotte del giaciglio non rappresentano un problema, anzi sono un motivo per stare ancora più stretti l’un l’altro.

-Pensavo che alla fine tu avresti detto a tuo padre che non partivi con loro.-

    -Non vado per lui ma per Jolanda e per noi- Nicola stringe a sé il corpo della ragazza ma ha lo sguardo perduto in un punto indefinito della cabina, sente che quella partenza può creare una frattura insanabile fra loro.

   -Una scusa per te stesso.-

    -No, sai benissimo che qua avremmo vita difficile.-

   – Credi che a Carloforte sarebbe diverso ?

    – È una nuova comunità, li saremo solo Nicola e Caterina.-

– Sarebbe diverso solo perché la gente non ci conosce, le malelingue, quelli che giudicano senza sapere, sono ovunque- Il tono di Caterina è duro, spigoloso.

     -Appena ci saremo sistemati torno a prenderti- Nicola cerca di portare il discorso da un’altra parte, sa che Caterina ha ragione.

 -Dove andrete ad abitare?-

 -Inizialmente nella casa di Pietro, probabilmente mio padre e Jolanda continueranno ad abitare li, io lavorando ne costruirò una tutta per noi. Allora ritornerò a Pegli e ripartiremo per Carloforte, dove ci sposeremo.-

 -Come nelle favole, fai le cose facili tu. Ed io che devo pure fare finta di crederci-. Caterina non riesce a trattenere un sorriso. Prova un’infinita tenerezza per quel ragazzo dai capelli rossi, un sentimento che prevarica l’amarezza per la sua scelta di partire. Una scelta che non condivide ma che rispetterà nel solo modo possibile: aspettando il suo ritorno.

 – Sarà così, te lo prometto – Nicola stringe ancora più forte Caterina, il tepore del suo corpo lo richiama al dramma della separazione. Se solo avesse avuto il coraggio necessario per dire “No” a suo padre… un “No” troppo difficile da dire, perché c’è di mezzo anche Jolanda.

 E’ toccato a lui sopperire all’assenza della madre e in parte a quella del padre marinaio. Il legame che lo unisce alla sorellina va al di là dell’amore fraterno, per Jolanda lui è il più importante punto di riferimento.

Ora è tardi, devo tornare a casa, mia madre sarà in pensiero-. Caterina ha detto alla madre Teresa di Nicola; tra loro non c’è mai stato nessun segreto, esiste una complicità assoluta, e Teresa ha messo in guardia la figlia da quell’amore complicato dal diverso ceto sociale tra i due.

    – Ti porterà solo dolore- ha commentato. Poche parole che suonano come un avvertimento e un monito.

Cautamente escono dalla cabina della barca, attenti a non farsi vedere da qualcuno. Ora sono sul ponte della Speranza, cosi l’ha ribattezzata Tonio, il padre di Nicola. L’uomo aveva iniziato come marinaio, tanti imbarchi sulle navi che giravano per gli oceani. Grazie alle sue abilità e serietà aveva guadagnato la fiducia di un armatore che lo aveva voluto come nostromo. Era un uomo di mare, forte e deciso, la notizia della morte della giovane moglie lo aveva colto lontano da casa, nei mari dei Caraibi, lontano, troppo lontano: un parto difficile, la donna era morta dando alla luce una bimba.

     Il rude marinaio si era sentito impotente di fronte a questa prova, fragile di fronte al destino che aveva portato via una vita mentre ne donava un’altra. Il senso di colpa per non essere stato li, a tenere la mano della moglie mentre partoriva Jolanda. Colpevole per non aver potuto consolare Nicola, dopo che al ragazzo era stato detto che non aveva più una madre. Tonio aveva deciso: mai più così lontano.

     A poca distanza di tempo da quella decisione, l’uomo era venuto a sapere che a Sestri Levante un piccolo armatore aveva messo in vendita una sua imbarcazione: Un leudo di una quindicina di metri, una barca a vela latina in grado di trasportare una trentina di tonnellate di merce varia. Messo mano al denaro, guadagnato in tanti anni di navigazione, aveva comprato la barca e una certa quantità di merce, per iniziare la nuova attività di commerciante. Alla piccola nave volle assegnare un nome pieno di significato.

      Perlopiù i suoi scambi commerciali lo portavano nell’arcipelago toscano ma anche in Sicilia e Sardegna,

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     Ed è in Sardegna la terra dei suoi sogni: l’isola di San Pietro, un’isola a sud ovest della costa sarda, popolata da gente ligure, sono coloni dell’isola di Tabarca, discendenti della gente partita oltre due secoli prima da Pegli per pescare il corallo in terra tunisina; ma anche famiglie arrivate direttamente da Pegli, circa sessant’anni prima, per fondare tutti assieme un nuovo paese, Carloforte. Tutto sembra volerlo condurre lì, compreso il suo marinaio e amico fedele: Pietro il carlofortino.

    -Verrai al molo domani mattina?- Domanda Nicola mentre i due riassettano i vestiti.

-Preferisco di no, anche se non ci saluteremo direttamente la gente parlerebbe in ogni caso.- Caterina risponde ancora una volta in modo brusco, non vuole cedere al sentimentalismo e alla malinconia, non si vuole rendere patetica di fronte all’uomo che ama e che la sta lasciando sola.

    -Nicola, hei Nicolala voce viene da terra, evidentemente quel posto, il loro posto, non è poi cosi segreto. Pietro, il marinaio della Speranza è fermo accanto alla bitta d’ormeggio e lo sta chiamando.

 – Eccomi Pietro, che succede? – istintivamente Nicola si mette davanti a Caterina per celarla alla vista del marinaio.

 – Tuo padre mi ha mandato a cercarti, è tardi e domani si partirà presto, ci sono ancora alcune cose da rivedere prima della partenza, anche Jolanda mi ha chiesto di prenderti per un orecchio e portarti a casa, non ne vuole sapere di andare a letto se tu non sei tornatopoi con un sorriso e accenno di occhiolino: -Però se io fossi al tuo posto ora, non avrei nessuna voglia di obbedire. –

    Nicola stringe a sé Caterina ancora una volta. Si lasciano senza una parola, scendono dalla barca e una volta sul molo prendono strade diverse. Si è alzata una leggera brezza, le barche ormeggiate al molo dondolano leggermente. Odore di salsedine e di pesce che sta marcendo: qualche pescatore l’ha dimenticato tra le maglie delle reti stese ad asciugare sul molo.

       –Sarebbe bastato che glielo avessi detto, probabilmente non sarebbe partito-. Caterina è persa nei suoi pensieri mentre percorre i bui carruggi del borgo-. Sarebbe bastato che gli avessi detto che diventerà padre-. Un rumore di acqua che scorre le ricorda che è nei pressi del fiume Varenna, non lontana da casa. Affretta il passo, tra poco suo padre ritornerà a casa e lei dovrà già essere lì.

  Si ferma un attimo per riprendere fiato, una mano sul ventre, come per proteggere il suo segreto.

Lo aspetteremo assieme, ha promesso che tornerà.

       Nicola cammina a occhi bassi, tra lui e Pietro solo il silenzio. I due stanno provando cose profondamente diverse. Il giovane è arrabbiato con sé stesso, per non aver avuto il coraggio di scegliere la cosa più importante per lui. L’anziano marinaio sta per tornare a casa dopo una vita passata in giro per il mondo, ha scelto di terminare nella piccola isola l’ultima parte del suo viaggio ed è felice.
Continua…
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Appuntamenti

Mostra: Il “tempo” dei grandi Transatlantici

Inaugurazione il 26 novembre alle ore 15 di fronte alle autorità cittadine presso il Centro Culturale Pegliese.

Concerto per l’oratorio

Il concerto si terrà presso l’Oratorio dei SS. Nazario e Celso di Multedo alle ore 17 di Domenica 28 novembre

Il coro Monti Liguri propone, col patrocinio del Municipio Ponente e la collaborazione della Confraternita, un concerto a sostegno dei restauri e valorizzazione dell’antico Oratorio dei ss. Nazario e Celso in Multedo. Buona occasione per rivivere la musica corale e ammirare i le parti di Oratorio già tornate al pieno splendore.


Filarmonica Pegliese. Festa di Santa Cecilia a Pegli: la Banda Musicale al servizio della Liturgia

Chiesa S.Maria Immacolata e S.Marziano, domenica 28 dicembre ore 18.00. Santa Messa Solenne in onore di Santa Cecilia, patrona della musica e dei musicisti con la partecipazione della Filarmonica Pegliese Marco Chiusamonti

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