Il Ponentino-n°6

Questo sesto numero de “il PONENTINO” è anche il primo del nuovo anno.
Quello che ci siamo lasciato alle spalle è stato un altro “Annus Horribilis” ma, per contro, è stato anche l’anno in cui abbiamo voluto con forza ripartire con IL PONENTINO, e quindi, per questo, è un anno da incorniciare, con un interesse sempre più ampio da parte vostra, con un gruppo di collaboratori sempre più folto ed un entusiasmo in continua crescita.
Iniziamo questo nuovo anno parlando di Norberto Sopranzi. Per dirla come l’autore del servizio, Massimo Bramante: “Norberto Sopranzi appartiene a quella nobile cerchia di “educatori” che hanno fatto della propria vita, del proprio quotidiano, una testimonianza luminosa di come si può vivere con coraggio e coerenza la propria fede, le proprie idee e, non da ultimo, la gioia che proviene dalla lettura, ottima compagna di vita, dal teatro, dal lavoro, privo di pregiudizi e preconcetti, con i giovani, gli emarginati, gli ultimi. E lo ha fatto con semplicità e profondità..”
E’ da testimonianze come queste, prendendo esempio dalla loro coerenza e “illuminazione”, dal loro coraggio, che possiamo, dobbiamo, partire se vogliamo uscire da questo periodo di nuovo oscurantismo.  E’ attraverso una divulgazione culturale e una informazione fatte con semplicità e onestà intellettuale, mettendo “l’individuo” prima di ogni altra cosa, specie del profitto”, che possiamo sperare in un domani più tollerante e inclusivo, meno vuoto di idee e valori, insomma: “più umano”.


di Marco Maltesu

Qualche giorno fa è stata trasmessa la puntata di Città Segrete su Genova un programma trasmesso in TV da Rai3, di Corrado Augias. Il taglio dato alla trasmissione è stato abbastanza particolare e sta destando, come al solito, molti mugugni nella popolazione genovese.  È stato commovente vedere le immagini della nostra città, in particolare meravigliose le immagini riprese con i droni dall’alto che mettono in evidenza la bellezza del centro storico Genovese. Tanti sono i talenti che hanno caratterizzato la nostra città, dalla spinta Repubblicana all’invenzione della banca, dalla creazione della Borsa al lancio del gioco del lotto. Genova è stata addirittura capace di liberarsi da sola dalle forze tedesche, caso unico in Italia.  Per una caduta di tono, a Genova è stata associata anche la tragedia della nave Costa Concordia al Giglio, che è un po’ come dire che se vogliamo parlare di Torino facciamo un servizio su una Fiat 500 finita contro un muro a Teramo. La trasmissione ha messo in evidenza la meravigliosa prolificità artistica genovese nel campo della musica con in testa il grandissimo Fabrizio De Andrè ma con una quantità infinita di artisti, denominati “la scuola genovese” che a ben guardare non è un fenomeno che riguarda solo la musica ma riguarda anche il cinema, il teatro, in quale altra città potreste mai trovare la stessa quantità di teatri, pensate solo alla quantità di comici cittadini! La prevalenza della produzione artistica genovese è talmente tanto ampia ed evidente da sconfinare anche nel campo dell’Hard-core con Moana Pozzi che sicuramente ha rappresentato nel campo una eccellenza!! Peccato aver parlato di infrastrutture solo in relazione alla caduta del ponte Morandi perché nella realtà il sistema infrastrutturale genovese e ligure è stato un sistema veramente all’avanguardia in Italia ed in Europa. Vale la pena ricordare che l’autostrada Genova-Milano è stata la prima autostrada italiana. I ponti viadotti e gallerie che compongono la rete autostradale ligure erano guardati con invidia ed ammirazione da tutta l’Europa, un primato di modernità, davvero una splendida rappresentazione di innovazione, tecnologia ed audacia costruttiva. Certo che se tali fattori di eccellenza li si lascia marcire al vento, salsedine ed intemperie senza fare i necessari non dico rinnovamenti, ma almeno le manutenzioni, è chiaro che purtroppo ci ritroviamo a ricordare il sistema autostradale genovese con la caduta del Ponte Morandi.  Insomma due ore di trasmissione in prima serata della Rai su Genova sono davvero un bel biglietto da visita, capace di restituire anche se solo in parte, la bellezza di questa meravigliosa città, davvero una splendida vetrina, altro che mugugni!!!
Marco Maltesu


Siamo in un mare di guai? : su questo numero il primo articolo di un grande nome nello studio delle scienze marine
di Antonio Marani

Francesca Garaventa è Primo Ricercatore presso l’Istituto per lo studio degli impatti Antropici e Sostenibilità in ambiente marino del CNR(CNR-IAS) di Genova. Biologa marina e grande amante del mare, si occupa della valutazione dell’impatto antropico sull’ambiente marino. Il suo primo servizio sul PONENTINO riguarda l’ecosistema marino ed è una grande lezione su un problema che coinvolge il destino del nostro pianeta che, com’è noto, è coperto per il 69% dall’acqua marina.
A volte si sente usare questo refrain per significare il pericolo che corre la nostra Terra: “Se non correggiamo i nostri comportamenti nei confronti della natura andremo verso la fine del mondo“. Non sarà affatto così, perché sarà l’essere umano a scomparire trascinandosi anche gli animali ma il mondo resterà. Il tema dunque è di scottante attualità e la scienziata Francesca Garaventa, un grande nome italiano nello studio delle scienze marine, scriverà per il nostro giornale, dopo questa sua prima uscita, una serie di grande interesse proiettata anche nel futuro.
Antonio Marani

Leggi l’articolo: “Siamo in un mare di guai? L’ecosistema marino e le minacce che lo stanno mettendo a rischiodi Francesca Garaventa

IN QUESTO NUMERO:



SOMMARIO

pag.3 TERZA PAGINA
Imparare  a  vivere :  Norberto  Sopranzi  educatore


di Massimo Bramante
Norberto Sopranzi (1904-1985) appartiene a quella nobile cerchia di “educatori”  – nel senso prima delineato – che hanno fatto della propria vita, del proprio quotidiano, una testimonianza luminosa di come si può vivere con coraggio e coerenza la propria fede, le proprie idee e, non da ultimo, la gioia che proviene dalla lettura, ottima compagna di vita, dal teatro, dal lavoro, privo di pregiudizi e preconcetti, con i giovani, gli emarginati, gli ultimi. E lo ha fatto con semplicità e profondità...continua a leggere


pag.4 IN PRIMO PIANO
Siamo in un mare di guai? L’ecosistema marino e le minacce che lo stanno mettendo a rischio


di Francesca Garaventa
La Liguria, con i suoi 350 Km di costa, rappresenta un punto di osservazione privilegiato sul Mar Mediterraneo. Se si considera che la lunghezza delle coste che si affacciano sul Mar Mediterraneo è pari a 46.000 Km, appare subito evidente che la piccola Liguria è davvero un palchetto nel teatro dell’osservazione della Natura…Continua a leggere


pag.5 -ATTUALITA’-
Ed un bel giorno si risvegliò il cinema Eden…


di Marco Maltesu
Finalmente dopo tanti anni arrivano delle novità per il cantiere esistente all’interno dell’arena estiva del cinema Eden, fermo da anni con i lavori sospesi per il fallimento della ditta appaltante e con quella che i cittadini pegliesi hanno iniziato a temere da tempo ovvero la gru del cantiere…continua a leggere


pag.6 EVENTI
Voltri. Da Venerdì 7 a Domenica 9 gennaio 2022 si presenta la rara occasione di ammirare la prestigiosa Sala delle Conchiglie di Villa Duchessa di Galliera

di Antonello Rivano
La conferenza stampa, le date, i particolari , i cenni storici e le curiosità di un appuntamento imperdibile...continua a leggere


RUBRICHE


pag.7 LIBRI E AUTORI
“L’uomo con il berretto rosso” – Emanuela Navone

di Sara Piccardo
Un uomo con un berretto rosso, muto e immobile. Invisibile a tutti, tranne a te. Si aggira tra i “bricchi” e il Centro. Ti segue ovunque, ti fissa. Non fa assolutamente niente, salvo fissarti. E inquietarti. E ossessionarti. A quali estremi potrà portarti la sua presenza innocua ma incombente?..continua a leggere


pag.8 IL CIBO: CUCINA , TRADIZIONI, TERRITORIO-
La focaccia genovese o “Fȕgassa”, quando il cibo diventa istituzione


di Antonello Rivano
[…] si gustava il tiepido profumo e sapore di questo semplice, ma goloso, cibo di strada, assaporando i bocconi croccanti vicino all’orlo e quelli più morbidi, nei punti in cui le dita del fornaio avevano compresso l’impasto, per fargli raccoglierete, in una piccola osai di piacere, una goccia d’olio e un grano di sale […]” (da “Il mulino dei Botti Adorno” di Pier Guido Quartero)…continua a leggere


pag.9 -E PÀOLE/LE PAROLE-
“Zazunâ”


di Fiorenzo Toso
Finisce e feste, comensa e menestre”, dice un vecchio adagio, e in effetti, dopo tante mangiate, non sarebbe male fare un po’ di digiuno, ossia cominciare, per dirla in genovese a “zazunâ”…continua a leggere


pag.10 -Tabarchini-
Quasi una repubblica marinara- 1850/1930: l’epoca d’oro di Carloforte


di Nicolo Capriata
Tabarchini: una nuova rubrica dedicata alle comunità tabarchine di Pegli, Carloforte, Calasetta, Nueva Tabarca e Tabarca.

In questo articolo, Nicolo Capriata, recentemente scomparso, ci porta alla scoperta di una Carloforte degna erede della sua origine Genovese, sino a diventare, a cavallo tra l’ottocento e il novecento, quasi una “Repubblica Marinara” …continua a leggere


pag.11 ROMANZO A PUNTATE-
La forma della felicità


4.Burrasca

Al largo dell’Isola di San Pietro una burrasca si avventa sul leudo “Speranza” e il suo equipaggio. Riusciranno Nicola, Pietro, Tonio e la piccola Jolanda a superare indenni questa prova?..continua a leggere



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TERZA PAGINA

Imparare  a  vivere :  Norberto  Sopranzi  educatore

di Massimo Bramante

Educare è assai diverso da insegnare, istruire, trasmettere contenuti culturali o nozioni tecniche.  “Educare – ha scritto Don Livio Tonello è più pregnante, più inclusivo, più dialogico…E’, in definitiva, aiutare a imparare a vivere”.

       Educare è, fondamentalmente, “prendersi cura”.  Don Milani, priore a Barbiana, condensava il concetto nel motto “ I care “ (mi importa, mi interessa, ho cura).  Per il filosofo e pedagogista  tedesco Hans-Georg Gadamer, educare è anche “educare se stessi”, nel senso di fare della propria esistenza terrena una testimonianza di coraggio, di capacità di decidere e scegliere in ogni circostanza della vita, anche la più complessa e pericolosa, con la propria testa, nel rispetto assoluto sia delle proprie convinzioni che di quelle dell’altro.

       E il coraggio non consiste nel saper accuratamente evitare i pericoli, le “grane”; bensì evitare che i pericoli, il quieto vivere, la banalità delle mode prendano il sopravvento su di noi e ci sommergano, giorno dopo giorno.

        Norberto Sopranzi (1904-1985) appartiene a quella nobile cerchia di “educatori”  – nel senso prima delineato – che hanno fatto della propria vita, del proprio quotidiano, una testimonianza luminosa di come si può vivere con coraggio e coerenza la propria fede, le proprie idee e, non da ultimo, la gioia che proviene dalla lettura, ottima compagna di vita, dal teatro, dal lavoro, privo di pregiudizi e preconcetti, con i giovani, gli emarginati, gli ultimi. E lo ha fatto con semplicità e profondità. Semplicità e profondità sono doti che purtroppo oggi si tende spesso a considerare in antitesi.  E’ un grave errore.  Nei “buoni” educatori, nei “veri” educatori semplicità e profondità convivono e tale convivenza produce frutti “veri” e “buoni”.

        Fede, morale, cultura, bellezza, spiritualità: tutte facce dell’ educare e dell’ educarsi.  Doni dell’intelligenza, del talento, dello studio e…doni divini: “Quid habes quod non accepisti? – Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? (1 Cor. 4, 7).

        La vita è dono.  Dono da non sprecare.  Figure come Norberto Sopranzi ci hanno fatto dono della loro vita mostrandoci, con semplicità e profondità, quanto fede, impegno sociale, cultura, capacità di sorridere, sapere sorridere (penso alle sue opere teatrali in dialetto genovese) siano intimamente connessi, siano il “sale” e diano “sapore” alla vita.  Come ben noto, sapere e sapore hanno la stessa discendenza etimologica latina: sapio.

        In che modo il prof. Sopranzi abbia dato “sapore” alla sua vita e, soprattutto, come abbia saputo trasmettere, tanto ai suoi ragazzi che lo hanno avuto come docente, quanto agli emarginati dalla società, sarà oggetto di un prossimo Convegno del Circolo culturale pegliese che porta il suo nome.

        Qui mi piace ricordare – insistendo appunto sul tema semplicità/profondità – che questo “aiutare ad imparare a vivere”, questo educare/educarsi praticato dal Nostro ricalca, riprende un concetto che era assai caro a Don Primo Mazzolari : l’ importanza di non ingabbiarsi in transeunti scuole di pensiero, rigidi filoni dogmatici, ricerche filosofiche o pratiche politiche fini a se stesse, staccate dal reale.  Annotava con fermezza Primo Mazzolari, agli inizi degli anni Quaranta del secolo scorso: “ Chiunque ha qualcosa da fare o da dire, lo dica e lo offra come può; senza domandarsi se c’è un metodo o un tono per dire o per fare…”; ed aggiungeva icasticamente: “Lo scrittore, ad esempio, o è un testimone o è un ingombro”.

        Se leggiamo i testi del prof. Sopranzi raccolti nel volume Messaggio ingenuo (sottotitolo, per altro denso di significato, “Alla ricerca dell’eterno ragazzo che è in noi tutti” ) comprendiamo con immediatezza come e perché Sopranzi aveva “qualcosa da dire”  (per usare l’incisiva espressione di Mazzolari).  Parallelamente, se rivolgiamo l’attenzione sul suo operare nel campo dell’ ergoterapia (termine che designa quell’innovativo percorso terapeutico per malati mentali volto a valorizzarne le capacità espressive, manuali, artistiche), comprendiamo con altrettanta immediatezza perché il Sopranzi aveva “qualcosa da fare”…Comprendiamo, in altre parole, il senso e il valore del suo impegno.

        Non credo di essere lontano dal vero se affermo, in questa sede, che nella nostra Liguria Sopranzi fu tra i primi a “creare” un gruppo teatrale formato unicamente da malati di mente, che recitavano testi scritti da loro stessi; così come fu tra i primi a fondare una rivista (“Questo nostro Ambiente”, il titolo della testata) scritta, illustrata, stampata dai malati stessi; rivista che mensilmente veniva distribuita negli ospedali psichiatrici della penisola. 

        Dare parola ai senza-parola e, attraverso la parola, “aprirsi” all’interno e all’esterno delle fredde mura ospedaliere è qualcosa di più di un percorso terapeutico: è “aiutare ad imparare a vivere” chi ha più difficoltà a vivere.  Ha scritto un acuto psichiatra, il prof. Eugenio Borgna: “Le parole nella loro liquida ambivalenza e nella loro plasmabilità possono essere soglie pietrificate dalla indifferenza o scialuppe di salvataggio nei mari tempestosi dell’angoscia e della disperazione”.

        Sopranzi conosceva bene il valore “liberatorio” dello studio, dei libri, della letteratura.  La sua vasta preparazione umanistica lo aveva portato, a soli 24 anni, a vedersi offerta la cattedra di Letteratura Italiana all’Università di Bologna (cattedra che – ricordiamo – era stata del Carducci e del Pascoli !) .  Ma erano gli anni oscuri del fascismo e Sopranzi non era uomo da piegarsi alla barbarie e alle ottusità dei regimi; non temeva manganelli e olio di ricino.  Aveva rifiutato la tessera fascista e per ciò stesso aveva messo a rischio la vita.  Si era impegnato, mantenendo libertà di pensiero e indipendenza economica, nell’ umile e faticoso lavoro del tipografo.  E sarà proprio lui a comporre e stampare il Manifesto dell’ insurrezione del 25 aprile 1945 affisso sui muri di Genova.  Le bastonature squadriste non lo avevano piegato; anzi lo stimoleranno, molti anni dopo, a mettere mano ad opere teatrali quali “Un memorabile giorno di aprile”.  La sua è una scrittura semplice, senza ricercatezze stilistiche, financo intrisa di una certa ingenuità (l’ingenuità – oggi diremmo – d’altri tempi).  Una scrittura che spesso affronta, anche con tocchi di umorismo, impegnativi temi sociali.  Citiamo quanto viene sottolineato nella terza di copertina del suo “Messaggio ingenuo”: “Per Sopranzi la guerra da combattere è non solo contro la fame, è per i soffocati e sacri diritti della persona umana”.  Il fine ultimo di questa “guerra senza armi”, di stampo gandhiano, del Sopranzi,  non può essere che “ la liberazione dai parassitismi e dalle corruzioni, dalle manovre speculative in economia, da fanatismo e terrorismo e dalle angoscianti prospettive di pazzi riarmi” (ibid.).  Un accorato appello rivolto a giovani e anziani, a uomini e donne, a intellettuali, politici, popolo,  un avvertimento profetico, un coraggioso invito ad impegnarsi sempre nel sociale, soprattutto là dove cova l’emarginazione.  Un appello che a noi pare di estrema attualità.

        Norberto Sopranzi è uomo di fede.  La dottrina sociale della Chiesa lo accompagna nella ricerca di come vivere con pienezza e coerenza il proprio tempo.  Una fede mai esibita, una fede che non è diretta ad attirarsi le simpatie di “chi la pensa come me”, che non utilizza simboli e riti religiosi per conclamare la propria identità, che non solleva rosari per erigere steccati tra “chi la pensa come me” e  “chi non la pensa come me”.  Una fede che è, fondamentalmente, semplicità, umiltà, rispetto, servizio. Una vocazione al servizio e alla condivisione che da tempo, a Pegli, anima suo figlio Don Bruno – che prosegue con tenacia l’opera educativa intrapresa dal padre – ed il Circolo Culturale Norberto Sopranzi che si adopera da sempre per la valorizzazione del Ponente genovese.

Massimo Bramante

Massimo Bramante– Laureato con pieni voti et laude in Economia e Commercio (indirizzo economico-sociale) presso Università Studi di Genova. Ha lavorato presso Istituto di credito e svolto Corsi di formazione nazionali su Economia e Sociologia del lavoro. E’ stato giornalista pubblicista nel settore economico-finanziario. Ha collaborato in qualità di “cultore della materia” e membro di commissione d’esame presso le cattedre di Economia Internazionale ed Economia dell’integrazione europea presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università Studi di Genova. E’ statorelatore ed ha coordinato seminari ed incontri di studio su temi di “Etica finanziaria” e “Nuove economie”

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IN PRIMO PIANO

Siamo in un mare di guai? L’ecosistema marino e le minacce che lo stanno mettendo a rischio

di Francesca Garaventa

La Liguria, con i suoi 350 Km di costa, rappresenta un punto di osservazione privilegiato sul Mar Mediterraneo. Se si considera che la lunghezza delle coste che si affacciano sul Mar Mediterraneo è pari a 46.000 Km, appare subito evidente che la piccola Liguria è davvero un palchetto nel teatro dell’osservazione della Natura.

Provando a fare un ulteriore salto osservativo, si può poi considerare che il Mar Mediterraneo rappresenta all’incirca l’1% della superficie dei mari globali ma, da una analisi effettuata nel 2017 nell’ambito della WWF Mediterranean Marine Initiative, genera un valore economico annuale pari a 450 miliardi di dollari che lo rende la quinta economia della regione dopo Francia, Italia, Spagna e Turchia.

Questo dato ci può sicuramente sorprendere ma descrive solo parzialmente l’importanza e la ricchezza del Mare Nostrum. Infatti, questa piccola frazione delle acque salate ospita un elevato numero di specie animali e vegetali che rappresentano quasi il 20% della biodiversità marina mondiale, raffigurandosi così come un bene da un valore intrinseco che va ben oltre quello economico.

Tale bene che contempliamo dal nostro palchetto non è esente dall’allarmante declino che caratterizza l’ecosistema marino a livello globale e, più in generale, il pianeta nel suo insieme.

Ormai è ampiamente confermato che, a partire dalla metà del secolo scorso, l’impatto delle attività antropiche sul pianeta e sulla biosfera ha subito una accelerazione che lo ha portato ad un aumento esponenziale. Moltissimi parametri, quali la crescita demografica, l’espansione delle città, la creazione di rifiuti, lo sviluppo di sistemi economici e tecnologici basati sullo sfruttamento delle risorse naturali come se fossero infinite hanno seguito questo andamento.

L’umanità è entrata, ormai a pineo titolo, in un nuovo periodo della sua esistenza, un periodo in cui l’attività della nostra specie è in grado di alterare i sistemi fondamentali della Terra lasciando un’impronta visibile di questa interferenza. Questo nuovo periodo è stato identificato con il nome di Antropocene.

Nel 2009, il ricercatore svedese Johan Rockström, con suoi collaboratori, ha individuato nove limiti superati i quali l’equilibrio del pianeta verrebbe messo a rischio e con esso la vita dell’uomo.

I nove limiti individuati corrispondono a dei processi di alterazione che, se portati oltre ad una soglia limite, non permetterebbero più la vita in sicurezza degli esseri umani. Tali processi sono il cambiamento climatico, l’acidificazione degli oceani, l’esaurimento dell’ozono nella stratosfera, la perdita di biodiversità, il sovra-sfruttamento delle risorse idriche, i cambiamenti d’uso del suolo, le alterazioni dei cicli del fosforo e dell’azoto, il carico di aerosol atmosferico e l’inquinamento chimico.

Secondo i dati aggiornati, i valori limite di alcuni di questi sistemi sono già stati superati e i casi più evidenti e drammatici riguardano il cambiamento climatico e la perdita di biodiversità.

Il modello di Rockström con i nove limiti planetari. In rosso sono evidenziati gli ambiti in cui la soglia limite è stata oltrepassata (Fonte: Nature, 24 September 2009).

Altri limiti sono in procinto di essere superati mentre altri ancora godono tuttora di una discreta salute anche se per alcuni di questi, come l’inquinamento chimico, ancora non sono stati fissati dei limiti interpretativi che ne permettano una completa valutazione.

Tra gli impatti antropici in grado di influire sull’equilibrio del nostro pianeta e quindi anche del mare, l’inquinamento da sostanze chimiche ed il rilascio nell’ambiente di nuove entità è, senza dubbio, uno di quelli che giocano un ruolo importante anche nella perdita di biodiversità.

L’inquinamento da sostanze chimiche si presenta sotto diverse forme, abbiamo inquinanti che vengono ormai identificati con il termine “tradizionali” in quanto presenti da molto tempo in ambiente e dei quali si ha una buona conoscenza delle concentrazioni ambientali, dei loro effetti e dei limiti normativi in grado di permetterne un buon livello di gestione.

In questa categoria ricadono composto come, ed esempio, metalli pesanti, idrocarburi policiclici aromatici, pesticidi, PCB e Diossine.

Esiste invece un’altra categoria di inquinanti che vengono classificati come “emergenti” (in inglese, Contaminants of Emerging Concern, CEC) in quanto composti che potrebbero essere stati presenti nell’ambiente acquatico in passato, ma che solo di recente hanno sollevato preoccupazioni per i loro impatti sull’ecosistema o sulla salute umana e per tale motivo non sono ancora note tutte le informazioni necessarie ad una loro corretta gestione e tantomeno esistono dei limiti normativi o dei divieti in merito al loro uso.

Sebbene i composti emergenti includano più comunemente sostanze chimiche (di origine sintetica e naturale), come ad esempio interferenti endocrini (sostanze chimiche che possono alterare l’equilibrio ormonale degli organismi viventi), i farmaci, i prodotti per la cura della persona, sono compresi anche microrganismi, materiali come la plastica o i rifiuti elettronici e particelle, come le nanoparticelle o le microplastiche.

Foto by Lorenzo Moscia/Greenpeace

La ricerca sta facendo molto per studiare questi composti e per comprenderne la presenza, la dinamica e soprattutto gli effetti sull’ecosistema marino.

Questo articolo si pone l’obiettivo di essere il primo di una serie di pezzi che affrontino più nel dettaglio le questioni ambientali e scientifiche legate alle minacce che affliggono il nostro mare e di fornire un quadro dell’attività scientifica ed istituzionale che si sta mettendo in atto per trovare risposte in grado di ridurre il rischio legato a queste minacce, con l’obiettivo ultimo di rallentare il processo di superamento dei limiti che Rockstrom ha individuato come cruciali per l’esistenza del mondo così come è ora e la conseguente nostra presenza come ospiti di questo pianeta.

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ATTUALITA’

Ed un bel giorno si risvegliò il cinema Eden…

la gru incombente sulle case-fonte lavocedigenova.it

di Marco Maltesu

Non servono particolari doti divinatorie per capire che questa è una storia che sarebbe finita male.

Finalmente dopo tanti anni arrivano delle novità per il cantiere esistente all’interno dell’arena estiva del cinema Eden, fermo da anni con i lavori sospesi per il fallimento della ditta appaltante e con quella che i cittadini pegliesi hanno iniziato a temere da tempo ovvero la gru del cantiere.

In data 29/12/2021 il Tribunale Civile di Vercelli ha dissequestrato la gru in questione, riconoscendone la proprietà da parte di una ditta di noleggio, di fatto quindi escludendo la stessa dal sequestro del cantiere per cui ne ha autorizzato lo smontaggio e la rimozione.

Questi i fatti e queste le ultime novità, resta ora da capire quale sia la difficoltà maggiore, se sia ad esempio il fatto che in Italia capita spesso che le aziende falliscano ed anche come mai le aziende falliscono lasciando una scia dì insolvenze e dì debiti?

Come è possibile arrivare a situazioni come questa, un progetto osteggiato dalla cittadinanza in tutti i modi, per tutte le problematiche che emergevano dalla realizzazione dello stesso, ed alla fine l’abbandono dell’opera che lascia il territorio nella peggiore delle situazioni, perché lo scempio è stato compiuto ma nessuna opera riparatoria, o dì compensazione, è intervenuta.

Materialmente la cittadinanza si è ritrovata per anni con una gru assemblata per durare solo il tempo dì realizzazione del progetto e che invece rimane posizionata in loco per un periodo molto più lungo dì quello previsto senza ricevere alcuna manutenzione, alcun controllo, alcun pensiero da chi dovrebbe comunque vigilare.

la gru tra le case: fonte dal web

E se quella gru fosse caduta? E se avesse provocato dei danni economici chi ne avrebbe risposto? E se avesse provocato danni a persone di chi sarebbe stata la responsabilità? La gru, con un atto amministrativo da parte del tribunale, verrà smontata e portata via, non sono comunque fortunati i cittadini residenti intorno al cantiere che si ritrovano con uno scempio che chissà quando verrà sistemato, sperando che ci si ricorderà, quando magari fra anni qualche società riprenderà i lavori, che dovranno essere realizzate delle opere accessorie per limitare tutti i danni che il cantiere ha provocato. Il territorio, invece, quello non potrà ritrovare la risoluzione delle problematiche che tanti anni fa i cittadini hanno denunciato senza essere ascoltati.

Cinema Eden alla ‘aperto: Fonte lavocedigenova.it

Ed infine nessuno potrà restituirci il nostro cinema, il tempo che è stato tenuto chiuso, le emozioni che ogni proiezione dei film provocava, la gioia d’estate dì vedere i film all’aperto, l’allegria, le sensazioni e le emozioni dei bambini e dei grandi ad ogni singolo spettacolo ed il fluire dì vita che ha attraversato da sempre il cinema, con i convegni, le presentazioni ed i dibattiti con anche le relative discussioni… ecco tutto questo si è fermato, è stato letteralmente rubato alla collettività locale e purtroppo non ha neppure un valore, perché i veri valori non possono essere misurati in soldi.

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EVENTI

Voltri. Da Venerdì 7 a Domenica 9 gennaio 2022 si presenta la rara occasione di ammirare la prestigiosa Sala delle Conchiglie di Villa Duchessa di Galliera

Nei giorni 7/8/9 gennaio ritorna, dopo lo stop dovuto alla pandemia da Covid-19, uno degli appuntamenti culturali più attesi del Ponente Genovese: la riapertura al pubblico della “Sala delle Conchiglie” di Villa Duchessa di Galliera di Genova Voltri.

di Antonello Rivano

La Conferenza stampa

Lunedì 3 gennaio, il mondo dell’informazione è stato invitato dalla APS Sistema Paesaggio e dell’Associazione Amici di Villa Duchessa di Galliera, facenti parte della ATI che ha in concessione dal  Comune di Genova la gestione del Parco Storico ponentino, per presentare l’apertura straordinaria al pubblico della preziosa Sala delle Conchiglie. Apertura che avverrà il 7 – 8- 9 gennaio con vendita dei biglietti online sul sito

Nell’occasione, alla presenza della Assessora al Marketing Culturale del Comune di Genova, Laura Gaggero; del Presidente del Municipio VII Ponente, Claudio Chiarotti e della Dirigente dell’Istituto Comprensivo Scolastico Voltri 1, Caterina Bruzzone, il Direttore Scientifico del Parco, Matteo Frulio, il Presidente della ATI Villa Galliera e di APS Sistema Paesaggio Andrea Casalino e il Presidente della storica Associazione Amici di Villa Duchessa di Galliera, Emanuele Musso hanno illustrato ai partecipanti  il patrimonio artistico che caratterizza ogni centimetro quadrato della Sala e la storia, ricca di grandi personaggi, che ne accresce il suo valore.

Portando i saluti delle rispettive istituzioni, Chiarotti e Gaggero hanno elogiato l’impegno profuso dai volontari sia nella manutenzione e valorizzazionedel Parco, sia nell’organizzazione di queste tre intense giornate di visite guidate. Hanno inoltre ribadito il loro impegno, già riconosciuto dai rappresentanti delle suddette associazioni, nel sostenere le attività di promozione e recupero del più grande parco storico in Liguria.

Caterina Bruzzone,“padrona di casa” dalla sensibilità non comune verso il patrimonio artistico e storico, ha sempre sostenuto le associazioni affinché facessero conoscere ai cittadini questo tesoro, normalmente utilizzato come aula scolastica, così, anche questa volta, le ha incoraggiate a non fermarsi e a proseguire il vincente rapporto di collaborazione in essere.

Nell’occasione era presente anche la poetessa Annamaria Campello, Ambasciatrice di Genova nel Mondo ed esponente dell’Associazione Liguri nel Mondo, che ha recitato un poesia scritta appositamente per il Parco.

Al termine sono stati offerti i prodotti di Chicchi, focacceria voltrese, realizzati con ortaggi e verdure provenienti dagli Orti Storici di Villa Duchessa di Galliera riqualificati dalle suddette associazioni insieme agli studenti dell’Istituto Agrario B. Marsano di Genova S.Ilario.

Ma non solo. La famosa Marinetta ha offerto gustosi biscotti a forma di conchiglia realizzati con i limoni non trattati del Parco curati dai volontari.

Un momento della conferenza stampa

Ringrazio tutti i volontari che in maniera costante curano e gestiscono questo importante ambito del territorio e che riescono a regalare con tanto impegno delle vere e proprie “perle” come la possibilità di visitare la sala delle conchiglie, in particolare Andrea Casalino presidente di ATI Villa Duchessa di Galliera e Emanuele Musso presidente dell’associazione Amici della Villa Duchessa di Galliera” Dichiara il Presidente Claudio Chiarotti, che prosegue ”Ringrazio, inoltre, l’Ambasciatrice di Genova nel Mondo e poetessa Anna Maria Campello, per aver allietato i presenti con una sua poesia dedicata alla Villa.”

Il presidente dell’ATI, Andrea Casalino ha affermato: “I soggetti dell’ATI Villa Galliera, con la collaborazione di ASTER, hanno recuperato molte parti del Parco e, con i lavori in corso nella Valletta del Leone, restituiranno alla città un patrimonio storico di grande valore di cui la stessa non ne aveva più la percezione. Sarà una bella sorpresa potere immergersi nuovamente nell’atmosfera dantesca creata dal Barabino” proseguendo “La riapertura straordinaria della Sala delle Conchiglie rappresenta l’evento di punta dell’ATI Villa Galliera sia per il valore artistico e storico di quanto proposto ai visitatori sia per la durata e la qualità dell’impegno richiesto ai volontari, sempre in prima linea per valorizzare il Parco e i suoi tesori”.

L’evento

7-8-9- GENNAIO 2022

Ritorna uno degli appuntamenti più attesi dal pubblico e dai turisti: riapre la Sala delle Conchiglie ritrovando la sua vocazione di sala da pranzo, con la magia delle luci delle candele, il luccichio dei suoi vetri, delle porcellane e delle pietre che decorano tutta la sua superficie.
La bellezza unica della Sala, nel 1832 sede del banchetto nuziale fra Ferdinando II di Borbone Re delle Due Sicilie e la Principessa Maria Cristina di Savoia, sarà godibile nell’allestimento scientificamente curato dai volontari delle associazioni Amici della Villa Duchessa di Galliera ed A.P.S. Sistema Paesaggio, facenti parte dell’A.T.I. che ha in concessione dal Comune di Genova la gestione delle parti più preziose del Parco storico più grande della Liguria. I teli di fiandra dei Duchi di Galliera, fotografie originali, lettere autografe e ritratti accompagneranno i visitatori dalla Sala sino al Teatro Storico del palazzo. Un’occasione unica da non perdere per uno degli ambienti più suggestivi del Palazzo Brignole-Sale, normalmente chiuso al pubblico.

Il  ricavato del contributo di 6,00 Euro (5+1 di prevendita) sarà destinato al
recupero dell’area dantesca della Valletta del Leone, ultimo esempio di “giardino d’Arcadia” all’inglese presente in Liguria.
Prenotazione obbligatoria e informazioni sugli orari cliccando su
https://www.happyticket.it/…/199397-sala-delle…

ORARI
VENERDI’ 7 GENNAIO : 10,00 – 17,30/SABATO 8 GENNAIO: 10,30 – 17,30/DOMENICA 9 GENNAIO: 9,30 – 13,00

Cenni storici e curiosità

LA VILLA

Nel 1675 la villa fu acquistata da Giovanni Francesco Brignole Sale, dopo lavori di ampliamento i Brignole Sale la rinominarono villa Grande.
Nel 1699 il marchese Anton Giulio Brignole Sale commissionò i lavori di costruzione del giardino formale terminati nel 1711. Al doge Giovanni Francesco Brignole Sale si devono nel 1746 le terrazze, lo stemma e la scalea. Nel 1780 il voltrese Giuseppe Canepa decorò gli interni della villa in stile rococò a cui seguì l’intervento di Gaetano Cantone per la realizzazione del teatro storico. Nel 1803 vi lavorò Emanuele Andrea Tagliafichi che progetto un parco all’inglese e si dedicò ad alcuni interni del palazzo.

Nel 1814 Carlo Barabino completò il bosco detto “del Leone” e nel 1872, Maria Brignole Sale De Ferrari, duchessa di Galliera, fece realizzare il vasto giardino romantico progettato da Giuseppe Rovelli. Nel 1888 la duchessa la lasciò in eredità perpetua all’Opera Pia Brignole Sale. Dal 1931 è in uso al Comune di Genova, inizialmente in affitto e poi dal 1985 in proprietà tranne il palazzo e l’antistante giardino. Negli anni ha ospitato diversi ospiti illustri tra cui: Luisa Maria Adelaide di Borbone-Penthièvre, Maria Cristina di Savoia, Ferdinando II di Borbone, re Carlo Alberto, la regina Maria Teresa d’Asburgo e gli imperatori Francesco Giuseppe d’Austria e Guglielmo II di Germania. Il giardino divenne famoso nella prima metà dell’Ottocento per le sue camelie e la collezione di agrumi, talmente apprezzati che venivano inviati regolarmente come regalo a Maria Teresa, regina di Sardegna e moglie di Carlo Alberto di Savoia. Di quegli anni è la rappresentazione di M.P. Gauthier e la descrizione fatta dal Bertolotti nel 1832: “tra principesche sale, nel mezzo di giardini e boschi di rinomanza europea”. Negli ultimi anni della seconda guerra mondiale le truppe tedesche la dotarono di opere difensive per il controllo della costa e delle valli Leira e Cerusa. Mentre le trincee non sono più visibili sono ancora presenti bunker di vedetta e di ricovero.
(fonte: https://www.villaduchessadigalliera.it/)

LA SALA DELLE CONCHIGLIE

Era in realtà la Sala da Pranzo riservata ai ricevimenti per gli ospiti voluta da Anna Pieri Brignole Sale, dama di compagnia della moglie di Napoleone. Posta nella parte terminale del percorso chiamato delle “Sale di Società”, rappresenta oggi un unicum nel suo genere.
Esistono certamente ninfei e sale a grotta nei giardini, tuttavia una sala da pranzo realizzata con queste tecniche risulta ad oggi esistente solo nel Palazzo di Villa Galliera e in Germania.
Le pareti sono rivestite di conchiglie di porcellana, tufo, serpentino e marmo bianco. Si intravedono poi inserti in rami di corallo e vetri tagliati sempre a forma di conchiglia.
Realizzata attorno al 1785, la tradizione vuole che la decorazione sia da attribuire a Giuseppe Canepa (1721-1803), artista polimaterico, esperto quadraturista e artista che si ritrova spesso nei cantieri di Simone e Gaetano Cantone.

E’ probabile che il progetto decorativo sia da attribuire proprio ai Cantone, anche se la forma delle conchiglie, la disposizione delle decorazioni rococò e molti altri segni distintivi sono simili, se non uguali, ad altri interventi sicuramente realizzati da Giuseppe Canepa. L’uso dei materiali si riscontra per altro nella Villa Rovereto – Thellung nel borgo di Crevari, il cui ninfeo è realizzato con le medesime conchiglie di porcellana.
L’arredo che risulta dagli elenchi è semplice e sobrio, teso a valorizzare la decorazione parietale, lo sfavillio delle porcellane e le luci create dal riverbero sui vetri e le pietre utilizzate nella decorazione. Sulla parete nord si trova la fontana che caratterizzava tutte le Sale di Società del piano terra. Al centro era collocato un grande tavolo da quindici posti con poltrone in legno.

Per cogliere appieno la scena in cui si ritrovavano gli ospiti, bisogna immaginare di trovarsi in un luogo in cui la luce delle finestre penetrava “toccando” le migliaia di pietre e porcellane, creando un effetto assolutamente suggestivo con continui e cangianti riflessi. Una sensazione amplificata dalla presenza dell’acqua della fontana che dava l’idea di trovarsi a tutti gli effetti in uno scenario naturale che dialoga con il giardino antistante.
Gli ospiti dei ricevimenti furono Maria Cristina di Savoia e Ferdinando II di Borbone in occasione delle nozze reali celebrate all’Acquasanta (Maria Cristina è stata proclamata Beata nel maggio del 2016), Francesco I di Prussia, i re d’Italia, la figlia della regina Vittoria d’Inghilterra e dignitari provenienti da tutta Europa.
Dopo la seconda guerra mondiale la sala fu abbandonata per più di un decennio quando, a seguito di un vero e proprio battage mediatico fu deciso di occuparla con un’aula scolastica. Attualmente è utilizzata dalla Scuola dell’Infanzia dell’Istituto Comprensivo Voltri 1
(fonte: visitgenoa.it)

IL TEATRO

Si tratta del teatro privato più antico della Liguria e tra i più antichi in Italia.
Realizzato nel 1786 su progetto di Gaetano Cantone dall’artigiano Giuseppe Canepa su volere di Anna Pieri, moglie di Anton Giulio III Brignole Sale ispirandosi ad un modello acquistato da Tommasina Balbi. Alla realizzazione delle decorazioni ha partecipato anche il pittore e scenografo Carlo Alberto Baratta.

La sala è divisa tra palco, sala per il pubblico e parte dedicata all’orchestra (di cui si è perso il soppalco). Agli angoli della volta sono rappresentate le Arti liberali (musica, poesia, pittura ed architettura). Le pareti rappresentano paesaggi naturali e architetture a fingere la sala come padiglione del giardino visibile da grandi finestre.Il restauro avvenuto tra il 2005 ed il 2010 ha restituito bellezza e fruibilità anche per spettacoli.
(fonte: https://www.villaduchessadigalliera.it/)

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LIBRI E AUTORI

“L’uomo con il berretto rosso” – Emanuela Navone

di Sara Piccardo

Un uomo con un berretto rosso, muto e immobile. Invisibile a tutti, tranne a te. Si aggira tra i “bricchi” e il Centro. Ti segue ovunque, ti fissa. Non fa assolutamente niente, salvo fissarti. E inquietarti. E ossessionarti.

A quali estremi potrà portarti la sua presenza innocua ma incombente?

Questa, in estrema sintesi, la trama de “L’uomo con il berretto rosso”, romanzo autopubblicato nel 2020 da Emanuela Navone, giovane autrice genovese che conosce alla perfezione gli strumenti della suspence e della tensione narrativa.

La scrittrice, editor e blogger di Vallenzona aveva già palesato le sue qualità di giallista in “Io sono l’usignolo” (pubblicato nel 2019 nella Collana Policromia della casa editrice PubMe) e questo suo secondo lavoro non fa che confermare il suo talento, mostrando una spiccata attitudine per l’indagine psicologica dei personaggi.

Un’ulteriore nota di merito le va ascritta per le ambientazioni: sia “Io sono l’usignolo” che “L’uomo con il berretto rosso”, infatti, hanno come palcoscenico le alture del genovesato, che l’autrice ben conosce.

Perché sì, cari lettori, si può ambientare un buon thriller, e financo un horror – a questo proposito segnalo, della stessa Emanuela, il racconto “Buia fu la notte” – sui “bricchi” liguri, che non hanno niente da invidiare al Maine di Stephen King.

L’autrice

Emanuela Navone è autrice, editor e blogger. Dirige la Collana Policromia della Casa Editrice PubMe. È media partner del Collettivo Scrittori Uniti.
Ha scritto i racconti “Reach” e “Buia fu la notte”, i romanzi “Io sono l’usignolo”, “Aequilibrium” e “L’uomo con il berretto rosso”. La caratteristica dei suoi romanzi è l’originale ambientazione ligure ad eccezione di Aequilibrium. È inoltre autrice di “Prontuario di editing, dieci spunti per migliorare il tuo libro”.
Il suo prossimo romanzo, “Le voci là dietro”, un thriller ambientato in Val Borbera, vedrà la luce a breve. Molto interessante inoltre è l’attività svolta dì editing e dì supporto all’editing che la nostra Autrice svolge. Per qualsiasi informazione: www.emanuelanavone.it

Sara Piccardo

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IL CIBO: CUCINA, TRADIZIONI, TERRITORIO

La focaccia genovese o “Fȕgassa”, quando il cibo diventa istituzione

di Antonello Rivano
Ora era fermo in piedi, fuori dal forno, e si gustava il tiepido profumo e sapore di questo semplice, ma goloso, cibo di strada, assaporando i bocconi croccanti vicino all’orlo e quelli più morbidi, nei punti in cui le dita del fornaio avevano compresso l’impasto, per fargli raccoglierete, in una piccola osai di piacere, una goccia d’olio e un grano di sale. Si chiese se fosse il caso di spingersi verso Santa Lucia, per bere un bicchiere di bianco…

Questa è la più bella descrizione della focaccia genovese che mi sia mai capitato di leggere, ed è tratta dal romanzo storico “Il Mulino dei Botta Adorno” dello scrittore genovese Pier Guido Quartero, edito da Liberodiscrivere

La focaccia genovese o “Fȕgassa”

Trovarsi a Genova e non provare la sua celebre focaccia è come non esserci stati. Parliamo di un “cibo di strada” che è diventato un’istituzione, la colazione con la focaccia inzuppata nel caffelatte, o cappuccino, che dir si voglia, nel latte o, semplicemente, per accompagnare un caffè è doverosa.  La Fȕgassa con un “bianchino” è l’antesignana (e l’alternativa naif) al moderno “aperitivo”; spesso ne è parte integrante.

Insomma un “cibo” a tutto tondo, che, pur nella sua semplicità, in Liguria, assume sfumature e particolarità locali. Come non andare con il pensiero alla focaccia di Voltri, con la ricetta originalissima del forno Priano, o della Marinetta, o quella di Recco con lo stracchino, passando attraverso tutta una serie di produzioni locali con loro peculiarità ma con il comune denominatore della “bontà” del prodotto finale?

Apparentemente la Fȕgassa è un lievitato semplice, un pane schiacciato ricoperto di olio e sale. La Focaccia Genovese ha un colore tra il dorato e l’ambrato e non deve superare i 2 cm di spessore, si presenta morbida all’interno e croccante sui bordi e all’esterno, ben oliata, ma non unta, con alveoli in cui si accumulano l’olio e i granelli di sale grosso, almeno questo è il canone per i palati degli estimatori, che considerano la focaccia simbolo stesso dell’essere e sentirsi genovesi.

In bellu tuccu de Fȕgassa”, un bel pezzo di focaccia, o ancora meglio “Ina slerfa de Fȕgassa”, dove il termine “Slerfa” deriva da una antica unità di misura genovese che corrispondeva a 1/8 di leccarda, che equivale a 150~200 gr. Per iniziare bene la giornata o, come suggerisce Alessandro Molinari Pradelliesperto di enogastronomia della buona cucina italiana, “sorseggiando un buon bicchiere di «vino bianco secco, fresco di cantina, o rosato, di quello vero, dei vigneti di Ponente», non importa se all’ora dell’aperitivo o in pausa pranzo o per cena”.

Storia

È Luigi Tommaso Belgrano, nella sua opera “Della vita privata dei genovesi” del 1866, a dirci che già nel 1392 nell’inventario dei beni di un fornaio, si trovava l’indicazione “pala una magna pro fugacis”, riferendosi cioè a una grande pala necessaria per introdurre nel forno un prodotto forse non contenuto in una teglia, ma cotto direttamente sul piano del forno. Probabilmente si trattava di una spianata semplice e non troppo condita, probabilmente più simile ad un pane sottile. Si racconta che, in età rinascimentale, fosse consuetudine mangiarla perfino in chiesa in occasione dei matrimoni, bevendo insieme del vino nel momento della benedizione, tanto che, nel 1500, un vescovo arrivò minacciare di scomunica alcuni frati se non si fosse cessato l’uso di cibarsi di quella “frugalia” o “pitanza”, tanto appetitosa che i fedeli arrivavano a dividersela persino durante le funzioni funebri. Risalgono sempre al Cinquecento, le indicazioni riportate in alcuni documenti riguardanti i banchetti in onore del neoeletto Doge che riferiscono proprio di una “fugase” nell’elenco dei prodotti preparati per il banchetto dei festeggiamenti. Si deve però arrivare all’Ottocento per essere certi di ritrovare qualcosa di veramente simile all’attuale focaccia genovese.

La Ricetta

 Consapevoli che per gustare la vera focaccia bisogna recarsi sul luogo d’origine, abbiamo inserito, fra le innumerevoli che si trovano in rete, una ricetta il più possibile semplice, domestica, e che garantisse un risultato “accettabile”.

Quantità per 1 teglia da forno 40 x 35 cm
Per l’impasto:
350 gr di farina manitoba
150 gr di farina 0
300 gr di acqua a temperatura ambiente
1 cucchiaino abbondante di lievito di birra secco (oppure 8 gr di lievito di birra fresco)
30 gr di olio extravergine
1 cucchiaino di miele
10 gr di sale fine

Per la salamoia:
100 – 120 ml di acqua
2 cucchiai di olio + un pochino per la finitura
2 pizzichi di sale fine abbondanti
1 cucchiaio di sale grosso (per completare)

Variante focaccia genovese con lievito madre: potete utilizzare 150 gr di lievito madre solido. Il procedimento resta invariato. I tempi di lievitazione si allungano un pochino.

Come fare la Fȕgassa genovese

Prima di tutto preparate la biga, ovvero un preimpasto ottenuto miscelando acqua, farina e lievito in proporzioni tali che esso risulti piuttosto asciutto, unite 100 gr di farina (presi dal totale di manitoba e 0, miscelate insieme), 60 gr di acqua presi dal totale e il lievito. Impastate a mano, formate una pallina e incidete a croce

Coprite con una pellicola e lasciate lievitare a 26 ° (forno spento acceso da poco) per circa 1 ora e 1/2 – 2 h

Trascorso il tempo indicato, la biga avrà raddoppiato il suo volume:

Aggiungete nella ciotola della biga, il resto della farina, il resto dell’acqua, il miele. Impastate con frusta K dell’impastatrice oppure a mano, fino ad amalgamare tutti gli ingredienti, basteranno pochi minuti. L’impasto deve agganciarsi alla frusta.

Aggiungete quindi l’olio a poco alla volta e incordate*. Basteranno 5’ e vedrete, pian piano, l’impasto della focaccia genovese diventare elastico e staccarsi dalle pareti della ciotola. Potete procedere anche a mano. Infine aggiungete il sale e amalgamate bene. Formate una palla.

* Per incordatura si intende la creazione della maglia glutinica che consente all’impasto di trattenere al suo interno i liquidi; L’incordatura è quel momento in cui, mentre impasti, l’impasto si stacca dalle pareti della vasca dell’impastatrice e diventa una massa compatta. Quando raggiungi quel punto, devi smettere di impastare, perché ulteriore energia meccanica rischia di ottenere l’effetto opposto, ossia di rompere il glutine già formato.

Coprite con una pellicola e lasciate lievitare per almeno 3 h a 26 ° (forno spento acceso da poco). L’impasto deve triplicare di volume! in inverno ci vorranno 4 h in estate basteranno 2 e mezzo.

Preparazione della focaccia genovese in teglia.

Rovesciate l’impasto lievitato su un piano di lavoro. Formate una palla. Lasciate riposare 10 minuti. Stendete con un mattarello l’impasto spolverato leggermente di farina, trasferite l’impasto steso in una teglia unta leggermente di olio:

Coprite con una pellicola e lasciate lievitare circa 40 minuti. Al termine del tempo indicato, stendete la focaccia genovese stirando i bordi e allungandoli fino ai bordi della teglia:

Coprite con una pellicola e lasciate lievitare 1 h. Al termine, l’impasto della focaccia avrà assunto un aspetto gonfio e riposato. A questo punto arriva il momento più importante, quello che caratterizza la Fȕgassa : fare i  buchi!

Come fare i buchi alla focaccia genovese

Prima di tutto vi consiglio di procedere con le unghie corte, altrimenti si rischia di bucare l’impasto! Nel caso abbiate le unghie lunghe utilizzate le nocche delle mani. Spolverate di farina Manitoba la superficie dell’impasto e le vostre mani.  Una volta realizzati tutti i buchi, controllate se ci sono rigonfiamenti, ripassate con le dita solo dove necessario.

L’emulsione della focaccia genovese: errori da non fare!

In una brocca inserite l’acqua, il sale e l’olio. Girate bene fino a sciogliere il sale.

Sembra una mole di salamoia enorme, e la prima cosa che viene in mente è: ne aggiungo meno! Fidatevi! Le dosi sono giuste! Versate l’emulsione sulla superficie della vostra focaccia genovese, ogni buco dev’essere colmo di salamoia:

A questo punto lasciate lievitare l’ultima volta la vostra focaccia genovese in forno spento a temperatura ambiente per circa 1 h e, comunque, fino a quando la salamoia si sarà dimezzata, perché assorbita. Aggiungete un altro filo d’olio e una spolverata di sale grosso

Cottura perfetta della focaccia alla genovese

Il forno dev’essere caldissimo a 250 °, infornate nella parte inferiore a contatto con il forno e lasciate cuocere senza aprire per circa 12 minuti. Ogni forno è diverso, quindi vi dico subito un trucco per non sbagliare cottura: potete passare al piano superiore la focaccia ligure quando vedete che sollevando l’impasto è diventato leggermente dorato sul fondo! Mi raccomando! Se non controllate vi troverete un fondo morbido e crudo.

Trasferite quindi la focaccia al piano superiore, dove dovrà cuocere per circa 10 minuti. Ultima pennellata di olio, accendete il grill e lasciate ancora qualche minuto.

Il vino

Da abbinare alla Focaccia Genovese, se vogliamo scegliere vini del Levante Ligure consigliato è il Bianchetta Genovese del Golfo del Tigullio, color giallo paglierino dalle sfumature verdognole, un giallo più o meno carico a seconda della zona di coltivazione. Al palato è fresco, asciutto e leggero. Viene prodotta anche la tipologia frizzante.

Intrigante l’abbinamento con un bianco delle Cinque Terre, morbido, nonostante la carica olfattiva, dal buon corpo e dalla buona struttura.

Spostandoci invece a Ponente, come suggerito in precedenza da Alessandro Molinari Pradelli, optiamo per un Pigato, profumo pulito, elegante, aperto. Fruttato, pesca e frutti esotici, sentore di erbe aromatiche. Vino con buona struttura, dal sapore sapido e persistente con finale gradevolmente ammandorlato.
In alternativa un sempre valido Vermentino della Riviera Ligure di Ponente

Fonti:

Pier Guido Quartero – Il Mulino Dei Botta Adorno, (liberodiscrivere)
gazzettadelgusto.it/
tavolartegusto.it/         

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E PÀOLE/LE PAROLE

“Zazunâ”

Di Fiorenzo Toso

Finisce e feste, comensa e menestre”, dice un vecchio adagio, e in effetti, dopo tante mangiate, non sarebbe male fare un po’ di digiuno, ossia cominciare, per dirla in genovese a “zazunâ”, un verbo che discende dal latino JEJUNARE e che è presente in genovese fin dai testi delle origini (fine sec. XIII: “denal m’è cossì preso / e quaxi zazunao no ò”, Anonimo Genovese) insieme all’aggettivo “zazun” ‘digiuno’ (per zo che li omi son zazun), usato come sostantivo anche nella forma “zazunio” (far zazunio e astinentia / gi par gragnora e pestelentia).

Queste forme continuano a essere documentate nella letteratura successiva (1637, “tirara chiù longa che un dì de zazun”, Brignole Sale; 1642, “no fasso veiria sao con zazunà”, Marini) fino ai repertori ottocenteschi (1851, Casaccia) e ai giorni nostri. Connesso a questo verbo è anche il suo contrario, ossia “disnâ” per ‘pranzare’, che però ci è giunto indirettamente, derivando dal francese antico “disner”, a sua volta dal latino tardo *DISJEJUNARE, letteralmente ‘rompere il digiuno’: anch’esso è ben documentato in genovese dai testi più antichi (fine sec. XIII, “disnando in chà de quello segnor“; seconda metà del sec. XIV, “no poè disnà stagando in grande pensamento”, nel Raxonamento de Criste a Maria), e poi nella letteratura successiva (1664, “quando disno conteigo“, Sgambati) fino ai repertori ottocenteschi. A sua volta l’uso sostantivato col valore di ‘pranzo’, tuttora vitale, è frequentissimo fin dalle origini (fine sec. XIII, “anti che fose disnar coito” ‘prima del pranzo’; “li gran disnar e le merende“), anche nel senso più generico di ‘cibo’ (“a chi for’ mancha lo disnar” ‘a chi forse è privo di cibo’). Altrettanto antica è la forma “depoidisnâ” per ‘dopopranzo, pomeriggio’ (fine sec. XIII, “una via de poi disnà / me incomenzai de raxonà”), per la quale oggi si sente sempre più spesso la variante italianizzante “doppodisnâ“. La variante “dirnâ“, diffusa soprattutto nel genovese rurale e rivierasco, presenta un passaggio da -s- a -r- piuttosto frequente davanti a consonante, che dà spesso origine a fenomeni di metatesi: “dirnâ” e “drinâ”, quindi, come “derfâ” e “drefâ” rispetto a “desfâ” ‘disfare’. 

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TABARCHINI

Quasi una repubblica marinara- 1850/1930: l’epoca d’oro di Carloforte

Panorama di Carloforte-Cartolina originale- Viaggiata 1914-su concessione di Salvatore Borghero

In ogni epoca ed in ogni nazione ci sono state etnie e comunità che si riconoscono e si identificano, o meglio ancora, si distinguono per il territorio e le peculiarità sulle quali hanno sviluppato la propria cultura e modellato la loro esistenza.

Cosi talune si sono cimentate e realizzate con la montagna, altre hanno intessuto sui pascoli dei monti e della collina storie e sostentamenti, altre ancora si sono misurate con le piene dei fiumi e la pianura ed altre infine hanno affrontato le insidie e le incognite del mare.
E la comunità tabarchina, (che poi, nella sua stensione, il termine abbraccia tutti i carlofortini) sul mare ha costruito con fatica e con dolore, con perizia e coraggio, l’essenza della sua splendida e rinomata civiltà.
Fin dal suo nascere l’alacre colonia carolina cercò e trasse dal mare mezzi e fini per la sua stessa esistenza.
Da principio esercitò la pesca del corallo nei banchi, allora “vergini”, del mare prospicente l’isola, alternata a quella delle aragoste, dei pesci e dei molluschi che quei fondali offrivano copiosamente.
Non molto tempo dopo, da quelle prime operose attività, gli intraprendenti carolini si dedicarono alla pesca del tonno, fino ad allora praticata in quelle acque da forestieri, diventando ben presto degli abili tonnarotti e, non pochi di loro, degli esperti rais.

Pesca del tonno

Intanto la bisogna della tonnara e il commercio del sale (ad un anno dalla colonizzazione le saline erano già in produzione) favorirono i primi traffici marittimi soprattutto con la Svezia, dove il sale veniva esportato. E con la spagna per il commercio dei libani necessari per la tonnara.

Saline di Carloforte- da una foto della raccolta Salvatore Borghero-L’anno nella foto è quello di pubblicazione sulla pagina FB Carloforte Nel tempo

Nella rada di Carloforte, posta a riparo del vento di maestrale, vi trovavano inoltre sempre più frequentemente rifugio, quando il mare si infuriava, bastimenti e battelli che dai porti del Mediterraneo centrali ed orientali facevano rotta con carichi vari verso le coste africane, francesi e spagnole.
Tant’ è che a diciotto anni dalla sua fondazione Carloforte era già sede di 2 viceconsolati, quello di Svezia e di Francia a ui si aggiunsero nel 1756 quello del Regno Unito e del Regno di Napoli.
In vent’anni la dinamica comunità Carolina stava già fruttuosamente trovando sul mare la sua strada.
Ancor di più negli che seguirono proliferarono le attività marinare e con esse prosperarono anche quelle, come oggi si dice, collaterali.
Sorsero i primi cantieri navali, nuovo impulso ebbe la pesca del tonno, qualche bilancella carolina comincio a sviluppare il commercio ed il traffico con le coste sarde; accanto alle “arti” dei mastri d’ascia e dei marinai fiorirono i mestieri di carpentiere, calafato, cordaio.

Erano i primi bagliori, o meglio le prime avvisaglie di quella che da lì a poco sarebbe diventata la splendente e rinomata, anche fuori dai confini nazionali, marineria carolina.

Cosi in un crescendo sempre più frenetico e fecondo si arriva ai primi decenni dell’ ottocento, allorquando il porto di Carloforte era diventato lo scalo “obbligato” ; vi facevano sosta per approvvigionarsi e per sottoporsi a riparazione tanti dei velieri che trafficavano nel Mediterraneo occidentale.
Ma soprattutto intorno ala 1850, quando ebbe inizio lo sfruttamento dei giacimenti metalliferi dell’iglesiente e i dirigenti delle compagnie minerarie, allora francesi belgi e inglesi, decisero di far convogliare il prodotto grezzo a Carloforte, per poi essere trasportato i “continente” che il porto e la marineria di Carloforte decollarono definitivamente.

Panorama di Carloforte da Forte S. Cristina- Cartolina originale viaggiata nel 1904-
Collezione Salvatore Borghero

E quella che va dal 1850 fin pressappoco al 1920-1930 fu un un’epoca d’oro per Carloforte.
Il porto divenne in brevissimo tempo, dopo quello di Cagliari, a cui contese a lungo la palma del primato, il più importante della Sardegna.
Dalla battigia gli scavi di bovi, bilancelle, tartane, paranzelle, briks, sconners, golette e brigantini impedivano la vista verso la costa dell’isola madre.
Alberi e pennoni, stralli e sartie s’incrociavano in un gioco mutevole e bizzarro, rendendo visibile quella porzione di cielo, appena un po’ più sopra della linea dell’orizzonte, come attraverso un fine e fitto setaccio dalle maglie irregolari.
Per entrare e uscire dal poro i bastimenti dovevano districarsi tra le murate e bompressi in uno slalom che non concedeva alla manovra alcun margine di errore.
I pontili, nei pressi della riva erano simili a formicai: si caricava e si stivava in un ritmo sostenuto e incessante ogni genere di marce: dalla “galanza” al carbone, necessario per gli impianti di estrazione del minerale, dai cereali ai laterizi, dai barili di tonno salato alle aragoste, dal sale ai formaggi, all’ olio, al vino.
Le navi provenivano dai più disparati porti europei e altrettanto varia era la loro destinazione e nazionalità: quattordici erano i paesi che avevano i loro rappresentati consolari a Carloforte.

Il porto di Carloforte ai tempi d’oro-Collezione Salvatore Borghero

Parte di questo intenso traffico era svolto da “padrini” e marinai carlofortini che con fervore e furore, quasi come in una gara, rivaleggiavano tra loro in abilità ardimento e intraprendenza.
Già esperti di piccolo cabotaggio, fino allora praticato verso i porti sardi di Alghero, Bosa, Portotorres e Cagliari, a cui sia aggiunse il traffico verso le coste dell’iglesiente per il trasporto del minerale, molto carolini ora infatti con le loro vele solcavano sicuri il Mediterraneo dirigendo le loro prue verso la Liguria, la Toscana, la Corsica, il Nord africa, la Sicilia e Malta.
In seguito, ma molto tempo dopo, i carlofortini (e tanti sono ancora oggi) andranno a misurarsi con i flutti delle vastità oceaniche.
Ma se rinomate erano (e tutt’ora sono) le loro virtù marinaresche, non meno famosa era la loro maestria nella costruzione delle barche.
Le bilancelle per il piccolo cabotaggio e le barche per la pesca da tempo venivano costruite a Carloforte.
Ma le mutate esigenze dei tempi e del traffico marittimo, che richiedeva natanti sempre piu campenti e veloci, diete nuovo impulso e fioritura alla cantieristica navale che raggiunse il suo apogeo all’inizio del secolo.
Le abili e sapienti mani dei maestri d’ascia d’allora diedero sagoma alle ordinate e al fasciame di barche sempre più grandi, eleganti, stabili.
Un numero enorme di bilancelle da 50/60 tonnellate di stazza fu varato dai cantieri carolini.

Alberto padre meglio conosciuta come “cruxe”:
Costruita nel 1907 nel cantiere Gavassino su progetto di Pietro Ferralasco.
Collezione Salvatore Borghero

A commissionarle non erano solo gli armatori locali ma anche quelli sardi e della penisola.
Per molti lustri inoltre in questi cantieri prese forma gran parte del naviglio peschereccio sardo.
Ardua se non impossibile impresa sarebbe elencare le tante barche modellate dai maestri d’ascia carolini.
Va tuttavia citato il “Trento” una bombarda da 100 tonnellate con due rande e due quadri costruita ne cantiere di Pasquale Biggio alla fine della prima guerra mondiale che, a detta di alcuni maestri d’ascia, ultimi esperti di una stirpe gloriosa, fu la barca più grande costruita a Carloforte.
Marinai e costruttori, i carlofortini avevano ormai conquistato il mare e il mare aveva conquistato i carlofortini per quel richiamo semore presente e pressante che aveva esercitato su di loro.
E sul mare i carlofortini hanno scritto, negli anni, tante pagine belle di onore e gloria e anche purtroppo tragiche e luttuose.
Ancora a adesso la pericolose e dura vita del mare è per tanti carlofortini la fonte dalla quale alimentano sogni e speranze.
©Nicolo Capriata ( 1989)

Titolo originale: “Carloforte, quasi una repubblica marinara”
Tratto da “ U Paize giurnu pe giurnu-Almanacco Carolino” Di Nino Simeone- Norino Strina-Nicolo Capriata (1989)
Le foto sono tratte dalla pagina FB “ Carloforte nel tempo”

prof.Nicolo Capriata
Cultore di storia tabarchina, scrittore, giornalista. E ‘stato fondatore e presidente della Associazione Culturale Saphyrina Carloforte. E’ venuto a mancare il 9 settembre 2021

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ROMANZO A PUNTATE

La forma della felicità

4.Burrasca

Al largo dell’Isola di San Pietro

Nicola è a prua della Speranza, osserva muto lo scafo solcare le acque di un azzurro profondissimo. Tonio, consultatosi con Pietro, ha deciso di lasciarsi le coste della Corsica e della Sardegna a sinistra, il viaggio sarà un po’ più corto, del resto è bonaccia e non serve avere il ridosso delle coste passando dalla parte interna. La loro meta oramai dista solo poche miglia, tra un poco dovrebbero iniziare ad avvistarla, contano di arrivare in porto prima di sera.

   Il suo volto è scuro, non prova gioia per essere così vicino alla loro nuova casa, non ha la smania della novità, della nuova avventura. Pensa a Caterina, a quanto tempo dovrà stare lontano da lei.

  Non sono i soli pensieri, lo preoccupa quella calma innaturale del mare, quell’assenza di vento, le vele vuote della sua energia, lo turba il silenzio innaturale e il colore del sole che lentamente sta fondendo i sui raggi in mare.

   Cerca di ricordare gli insegnamenti del nonno: il padre di sua madre, incanutito dagli anni, Nicola non lo aveva mai saputo quanti, con l’eterna pipa in bocca, che fosse spenta o accesa non importava.

   La pelle, un tempo chiara come la sua, arsa dal sole e dalla salsedine dei tanti anni passati per mare.

Amava raccontargli le sue avventure, e insegnargli ciò che la natura diceva attraverso segnali che non tutti sapevano cogliere; al tempo stesso gli spiegava come questa andasse temuta e rispettata.

   Poi un giorno il nonno era uscito per mare con il suo gozzo e non era più tornato. Li avevano cercati per giorni lui e la sua barca; trovarono solo l’imbarcazione, a bordo la pipa e qualche pesce, gli ultimi che avevano pescato. Se ne era andato come avrebbe voluto, lasciando dietro di sé il mistero della sua scomparsa in quel mare che aveva tanto amato. Per Nicola, il vecchio non era mai andato via: lo aveva sempre sentito accanto a sé: c’era quando era uscito la prima volta in barca, quando aveva tirato su la sua prima cernia, era lì quando la madre era morta dando alla luce la sua adorata sorellina Jolanda, gli era stato vicino nelle notti insonni quando le lacrime che non aveva voluto dare durante il giorno sgorgavano, celate dal buio.

   Il nonno gli aveva insegnato come riconoscere l’avvicinarsi di una tempesta, invitandolo a non fidarsi mai del mare troppo calmo e dell’assenza di vento -stanno preparandosi a colpire- gli diceva con quell’aria seria che talvolta lo intimoriva. Un giorno gli aveva fatto vedere due piccoli arcobaleni ai lati del sole che stava tramontando farà vento forte- disse.

-Ma nonno, se non c’è un filo di vento.

  Il vecchio aveva sorriso e non aveva aggiunto altro. Quella notte il vento aveva soffiato talmente forte che si dovette lavorare tutta la notte al molo, per rinforzare ormeggi ed evitare danni alle imbarcazioni.

Nicola aveva visto quei segni la sera prima della partenza e lo aveva detto al padre che aveva osservato secco:

-Solo vecchie credenze popolari senza fondamento- e come al solito le affermazioni di Tonio non ammettevano repliche.

 Jolanda ha finito di rassettare dopo la parca cena a base di acciughe salate e gallette secche. Hanno mangiato in silenzio, il padre quasi timoroso di guardare il figlio in volto, lui sa che Nicola non lo sta seguendo per scelta ma per obbligo. Pietro sonnecchia con il suo capellino calcato sulla testa sino a coprire gli occhi, la bottiglia sua compagna di sempre, ancora stretta in mano, semivuota.

   Nicola sorride sentendolo russare, il solo rumore in quel deserto d’acqua. A un tratto come una specie di carezza gelida sulla pelle, una brezza leggera che increspa l’acqua sino a quel momento immobile. Nicola alza istintivamente lo sguardo, e lo rivolge a Nord Ovest, nubi di un colore indescrivibile stanno correndo verso di loro, spesse e minacciose, le vele iniziano a gonfiarsi, il mare a spumeggiare.

   Il padre guarda prima lui poi Pietro, non c’è bisogno di parole: l’affiatamento tra marinaio e comandante non ha bisogno di ordini. Nicola sa per conto suo cosa fare: mettere al sicuro Jolanda. Presa per la vita la ragazza, che protesta energicamente, la mette sotto il riparo offerto dal boccaporto della stiva e lo copre con una tela cerata.

 Il comandante tiene con mani sicure la barra del timone mentre l’anziano marinaio bada alle vele, i due hanno già vissuto innumerevoli volte il cambio improvviso del tempo e sanno quanto sia pericoloso.

  Nicola è inquieto, sa che quei segni visti il giorno prima, non possono solo significare un aumento del vento, non possono solo significare l’arrivo del mistral, ci sarà altro…ma cosa?

   Ed è allora che la vede: una specie di coda che dalle nubi, scurissima, si dirige in mare, quasi a volerlo unire con il cielo, e mentre scende si ingrossa sempre di più. I tre uomini si guardano all’unisono, sui loro visi paura e senso di sgomento, temerarietà e impotenza, tutte le emozioni che hanno provato sinora si mischiano e sovrappongono, paralizzati da quanto sta nascendo davanti ai loro occhi.

   Il buio della sera appena nata lascia spazio a qualcosa di più nero, non vi è più cielo e mare ma un’unica cosa scura, il vento inizia a salire d’intensità e il mare a ruggire. Lampi squarciano le tenebre sopraggiunte e il tuono, quasi immediato, si confonde con la voce possente del vento, Tonio tiene la barra del timone in una lotta che sta diventando impari, le vele oramai ingovernabili iniziano a strapparsi come inutili pezzi di carta. A un tratto lo schianto, e l’albero che, spezzato, cade sul boccaporto.

 -JOLANDA- il grido gli sfugge forte mentre, incurante del pericolo, si getta dove ha riparato la piccola, aspettando di vedersi cadere addosso il peso, ma nulla accadde. Solleva il telo cerato ed estrae di peso la ragazzina, portandola fuori dalla traiettoria del pericolo.

  Solo allora guarda e vede Pietro che sorregge il lungo pezzo di albero spezzato, avvolto dalle sartie che ancora ne scendono, stremato dall’immenso sforzo delle braccia, e di quello delle gambe, per tenersi in equilibrio tra il ritmo incessante delle onde.

  Poi è un attimo: una rollata improvvisa e l’uomo che vola fuori bordo con il legno a cui inconsapevolmente si è legato, ma sorride Pietro, il suo ultimo sorriso, felice per aver fatto qualcosa di buono per le persone amate, un sorriso illuminato dalla luce di un lampo…poi sparisce inghiottito dalle tenebre.   

 Sanno che è la fine: -Nicola- la voce debole del padre sì – risponde quella del figlio, al quale è abbracciata Jolanda, spaventata ma certa che il suo eroe la proteggerà, portandola in salvo.

Nicola cerca a tentoni qualcosa sottocoperta, poi riemerge con una cima e un grosso pezzo di sughero, avvolge la piccola e glielo stringe alla vita, -Non avere paura, tra un po’ tutto sarà finito—almeno lei, almeno lei si salvasse – è la sua silenziosa preghiera .

 Poi è il padre a lasciarli: l’onda arriva da poppa, enorme, lo prende alle spalle e quando il posto è di nuovo sgombro dall’acqua, Tonio non c’è più. Un altro schianto e una parte della fiancata è come morsa dal mare, la barca sta cedendo    alla forza immensa della tempesta, Nicola abbraccia stretto la piccola e la bacia delicatamente sulla fronte, poi con un ultimo sforzo la getta fuoribordo, lontano il più possibile da quella che sta diventando una trappola ben più pericolosa del mare: un relitto che si sta inabissando.

 Un balzo e anche lui è nelle fredde acque. Il nonno ora è lì, accanto a lui, mentre la sua vita continua a lottare invano, è lì per accompagnarlo in quell’ultimo viaggio, di nuovo assieme.

   Finalmente il mistral si è calmato, cielo e mare sono di nuovo due cose distinte, il vento sembra pentito di quanto fatto e lentamente carezza le acque, quasi cullando quel pezzo di sughero su cui giace un angelo dai capelli rossi. Solo Jolanda raggiungerà viva l’isola. Pietro lo troveranno giorni dopo, riverso su una spiaggia, poco lontano da quella che lo aveva donato ai suoi genitori adottivi, il suo grande corpo avvolto da sartie di vela, accanto a lui alcuni pezzi di legno, ciò che il mare ha restituito della barca, su uno si legge una scritta: Speranza.  Tonio e Nicola se li è tenuti il mare.

CONTINUA…
(Potete trovare il libro sui maggiori Store online: Ilmiolibro.it, IBS, lafeltrinelli.it, Amazon. Oppure, su ordinazione, presso le librerie Feltrinelli di tutta Italia.)
leggi i capitoli già pubblicati:
1.La promessa
2.Il figlio del mare
3.Partenza

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