Mar. Ott 28th, 2025

“Dentro” di Sandro Bonvissuto: il carcere visto dall’anima

Un romanzo intenso che scava nelle ferite della detenzione, tra muri invalicabili, ricordi salvati e il bisogno urgente di umanità.

Libri e autori. Recensioni, approfondimenti, interviste agli autori, le presentazioni e uno sguardo agli eventi del mondo letterario. Uno spazio per scoprire i libri di oggi e i classici senza tempo, in un dialogo che arricchisce il nostro sguardo sul mondo


A Pettoranello del Molise, in Molise, sabaoto 9 agosto, il romanzo è stato presntato a cura del gruppo di lettura di Miror, del paese molisano di Miranda e del neonato gruppo di Pettoranello del Molise.

di Silvia De Cristofaro

Quando ho iniziato speditamente a prendere appunti su “Dentro” di Sandro Bonvissuto (come se i sentimenti, quelli al suo interno, così intensi, potessero essere circondati, chiusi, contenuti in mezzo centimetro di foglio) poggiavo il libro così come mi avrebbe rimproverato mio nonno, che mi diceva con placida, ripetuta e pazientissima costanza che, messi in quel modo, ai libri si rovinava l’anima. Non l’anima dei santi, per intenderci, non quella del purgatorio, per essere precisi. L’anima di un libro è il suo bordo, tecnicamente la parte esterna in cui le pagine sono rilegate, il dorso sporgente della copertina. Mai, quindi, tentare di danneggiare un libro neanche con la sacrosanta intenzione di prendere delle utili annotazioni. Così l’ho afferrato e divorato con occhi e mente, sino ad accorgermi che l’anima era “dentro” quell’ammasso di pagine, come il titolo stesso. Che l’anima era lo stesso autore, immedesimato nel protagonista, che muore, senza morire, di un’esperienza – quella del carcere – che insegna a vivere. Vivere come si deve, rifiutandosi “di costruire muri di cinta anche se ci pagassero”. Facile a dirsi ma non a farsi: dove mai potrebbero essere rinchiusi i colpevoli, i derelitti, se non tra i muri di un istituto penitenziario detto anche casa circondariale, detto anche carcere, detto anche prigione ed infine gattabuia?

In gattabuia, appunto, ci finiscono “gli avanzi della società” che, seppur per un lieve reato, rimangono per sempre etichettati dagli uomini perbene. Non è certamente di Sandro Bonvissuto l’intenzione di giustificare l’ingiustificabile, di perdonare l’imperdonabile, ma il suo “giardino delle arance” – che è il primo dei tre racconti del romanzo – è una descrizione dettagliata di un edificio “impenetrabile, massiccio, conficcato nel terreno, caduto dal cielo” in cui la luce entra fredda, già muore prima di toccarti, nella sola ora d’aria concessa, sui cinquantaquattro passi da cortile permessi. Il carcere, secondo Bonvissuto, è il disegno del male prodotto dal male, la riproduzione di un incubo riprodotto da un incubo. Scemenze (posso dire “cazzate”? o “baggianate”, è più elegante) quelle favolette in cui ti narrano della rieducazione carceraria “atta a produrre programmi finalizzati al cambiamento dei comportamenti dei detenuti per il reinserimento positivo nella società dopo la detenzione”. I “bla bla bla” non convincono Bonvissuto.

Sandro Bonvissuto (al centro) durante un momento della presentazione

Una volta finito in carcere, sei schedato. I “doganieri”, le “guardie di frontiera” ti rubano le impronte delle dita in cambio di una vita senza presente (perché ciascuna giornata è maledettamente identica all’altra) e senza futuro (perché incerto e quindi inesistente). A salvarsi è il passato: quello non devi consegnarlo assieme agli oggetti personali. Ogni detenuto ne fa un tesoro che racchiude in uno scrigno che diventa chiacchierata di un tempo più umano. Un tempo non depredato da muri “senza via d’uscita, del pianto”.

Bonvissuto, durante una narrazione appassionata e senza fronzoli, calca spesso sul termine “muro”, che secondo il filosofo e scrittore romano dovrebbe essere costruito “a salve”. “Salve” come dire “salvezza”. L’intenzione di Sandro Bonvissuto mi è parsa – ma lui stesso l’ha dichiarata – una maniera per trasmettere la negatività della detenzione descrivendo minuziosamente depressioni, ansie, disturbi mentali a cui inevitabilmente si scontra un uomo quando libertà ed affetti gli vengono strappati.

Ed attraverso i più variegati personaggi che si alternano al malessere del protagonista, che stringe legami importanti, l’autore, come la maggior parte (ci auguriamo) degli scrittori, desidera lasciare un insegnamento come la più significativa eredità dell’essere umani. Al di là della condanna in sé – della pena inflitta dalla legge, per intenderci – c’è bisogno di umanità. Che sta nella comprensione anche del delitto più atroce. Comprensione, non necessariamente perdono (sta in gradini “più alti” il perdono), per cercare di frenare un fenomeno, quello dei suicidi tra le sbarre, che sta diventando preoccupante e che colpisce maledettamente i più giovani.

Non ha la soluzione, Sandro Bonvissuto, né pretende di averla. “Il suicidio è uno strappo fra l’uomo ed il mondo” – scrive l’autore – “Poi il suicidio prende lo strappo da cui è nato e se lo mangia. Diventa il terzo termine, illegittimo, di una trinità”. Ed allora quello che dobbiamo imparare leggendo “Dentro” è proprio aiutare ad uscirne “fuori”.

Che i giovanissimi s’interessino a questi argomenti è l’esortazione principale di Bonvissuto che, dalla piazza di un piccolo borgo molisano – quello di Pettoranello del Molise, poco distante da Isernia – augura al mondo, ma pure ai presenti, una generazione migliore od almeno più attenta della nostra. Per conto mio, mi atterrò all’augurio che Sandro ha “scarabocchiato” (giuro che è sua la firma) sul suo (adesso mio) libro, dedicato ai miei due figli: “E me raccomando: studiate!”.

Silvia De Cristofaro


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