Ven. Apr 19th, 2024

Nora Pierro: da Salerno a Pechino. La Cina vissuta da una salernitana

“La Meglio Gioventù” riprende il suo corso. Uno spazio dedicato ai giovani che vogliono costruire “nuovi respiri”, in Italia come in altri Paesi. Perché questa meglio gioventù esiste davvero, al di là delle sciocche considerazioni di alcuni improvvisati detrattori. Nella terza edizione della rubrica, continueremo a leggere le storie di chi ha voluto espatriare (non necessariamente dal punto di vista geopolitico) dalla convenzione e dall’immobilismo. Questa volta, voliamo direttamente in Cina, con la cantante salernitana Nora Pierro. La sua analisi affonderà negli aspetti sociali, politici e culturali di un popolo, quello cinese, che, oggi, rappresenta indubbiamente una potenza mondiale. Entreremo nell’incanto di una cultura millenaria, che oggi fa i conti con la contemporaneità.

Nora, perché sei andata via da Salerno?

«Più che Salerno ho lasciato l’Italia. Stavo regredendo, perdendo interesse in qualsiasi cosa, sentivo di dover ampliare il mio background culturale, capire come funziona il mondo, e uscire dall’ottusità alla quale ci costringono, tra un TV show e la notizia inutile del giorno. Mi sentivo soffocare. Ora nel mio CV posso semplicemente scrivere che ho vissuto a Pechino: non c’è niente di più complesso, singolare, assurdo. Ho fatto la storia».

Cosa hai lasciato?

«Le radici, la base, ho lasciato me stessa, come dico nel mio brano “L’apparenza”. È scritto tutto lì. Ho lasciato indietro una persona a cui tengo tantissimo, ma che stavo perdendo perché io non sentivo di potergli dare altro che le solite cose».

E perché hai scelto la Cina?

«Laureata in relazioni internazionali e diplomatiche con indirizzo di studi su Asia e Africa, ho studiato la lingua cinese. Sono sempre stata una persona estremamente curiosa, e la Cina mi sembrava Marte, e avevo capito che avrebbe economicamente svoltato, così scelti questo indirizzo».

Quando sei arrivata a Pechino?

«10 aprile del 2013, non è una cosa che dimentichi facilmente. Sono passati ben quattro anni, troppi».

Che studi universitari hai fatto?

«Musica e studi in relazioni internazionali diplomatiche all’Orientale di Napoli».

Quanti e quali lavori svolgi?

«Da quando sono arrivata ho sempre lavorato prevalentemente come cantante e cantautrice, collaborando con band e musicisti di tutto il mondo. Un’esperienza inspiegabile, che ti arricchisce e ti trasforma in un animale da palco e da mondo. Ma ho fatto anche altri lavori, più che altro per non perdere esperienza e tenere aggiornato il mio CV. Ho lavorato per un’azienda italiana, per una compagnia americana di IT, come manager e organizzatore di eventi, ho insegnato italiano ai cinesi. Tutto quello che mi interessava fare al momento. Ma il mio stipendio è sempre arrivato dalla musica».

Parli cinese bene? Come ti sei ambientata nei primi tempi?

«Ora sì, lo parlo abbastanza bene, anzi, tra un mese benissimo, ho un esame importante. Non so perché, ma mi sono sentita subito a casa. Anzi, il perché lo so, grazie ad Antonio De Biase, salernitano anche lui, che ho conosciuto per puro caso su internet mentre cercavo informazioni su come si vive in Cina, come si trova casa, e in quel periodo era a Salerno, per cui siamo ripartiti insieme, e lo considero un fratello. Lui è qui da tanti anni, ha blog e gruppi sull’argomento, e negli anni ha aiutato centinaia di persone, di passaggio o intente a stabilizzarsi. Non potrò mai smettere di ringraziarlo».

Come musicista, con quale repertorio ti esibisci?

«Appena arrivata mi hanno chiesto di cantare musica italiana, incredibile. E avevo un chitarrista di New York, straordinario, con mamma di origini italiane. Poi pop, e finalmente rock, il mio genere preferito, e ho avuto la fortuna di cantarlo con gli americani, come la bossa con i brasiliani, e il jazz un po’ con tutti, suono spesso anche con i latini, preferisco i cubani di solito, per comunicare con loro ho imparato lo spagnolo. Sono fortunatissima, ho accumulato un’esperienza che è impossibile fare in nessun altro posto al mondo, una cultura musicale infinita e molto eterogenea, che probabilmente se tornassi in Italia neanche mi servirebbe. Ma l’unicità di questa esperienza è indescrivibile».

Cambi locale o lavori per una società di eventi fissa?

«Ho centinaia di agenti, e contemporaneamente per un anno e mezzo ho lavorato in un locale fisso con la band rock resident. E poi alcune agenzie più importanti per gli eventi in tv».

Hai realizzato un album?

«Album non ancora, anche se suona assurdo, ma stiamo cercando di finirlo. Scrivo tantissimo e, proprio per l’indefinibile numero di influenze ricevute, ogni volta i miei pezzi mi sembrano vecchi o non mi piacciono più. Ma ho incontrato questo grande musicista, Kenny Leonore, con il quale collaboro spesso, e che ora ha uno studio di produzione musicale, una persona di quelle calme, che ispirano e ti danno grande energia. E, insomma, ci lavoriamo su».

Una suggestione su Pechino: un luogo in cui stai particolarmente a tuo agio.

«La zona degli hutong è quella dove vivo ormai da un bel po’ e che frequento di più. È la zona vecchia della città, la mia casa è una pingfang, una vecchia casa cinese, bassa con tetto spiovente e antico, tra i vicoli stretti della Pechino antica, appunto, gli hutong. Molti occidentali, ma anche cinesi, hanno aperto bar e pub in questa zona suggestiva, dove è nato tutto il mondo musicale underground, che frequento appassionatamente. Concerti particolari, internazionali, e brunch e caffè pomeridiani all’aperto. Io e la maggior parte dei miei amici, anche di quelli italiani, viviamo quasi tutti qui».

La figura dell’artista in Cina.

«Un artista qui è trattato come se fosse un nostro artista famoso. Spesso mi riconoscono, mi fermano per strada: “Ehi, ma tu sei la cantante italiana, Nora? Sono stato al tuo concerto…”, gli stipendi sono alti, e la musica, ma l’arte in generale, sono un aspetto fondamentale per la società, ma anche per la stessa economia cinesi. Come ho detto, però, la cosa più bella per un artista è questa comunità/famiglia musicale internazionale, cinesi compresi, che si crea. Uno dei miei gruppi preferiti è proprio cinese, “Su&The Paramecia”, un cantautore dell’Inner Mongolia, che ci tiene a mantenere la sua identità di cinese e scrive nella sua lingua, ma allo stesso tempo si rende conto che è diverso dagli altri, non riesce a inserirsi in questa società dove se non sei sposato a 23 o 25 anni sei mal visto. E dunque soffre molto, e scrive musica e brani da brividi, mai sentito sonorità così prima d’ora».

Come sono l’Italia e il Sud, visti da lì?

«Chi ha studiato o è appassionato di Italia conosce Milano, Roma, Firenze, Venezia e Napoli. Ma chi è stato in Italia più che Milano ha amato il Sud e, in generale, le piccole città, come Siena, Pisa, Lucca. I cinesi, ovviamente, odiano i posti affollati, e quando viaggiano nel sud-est asiatico, non riescono comunque a trovare la tranquillità che desiderano, perché ci sono sempre tanti altri cinesi, e coreani, che si muovono nello stesso periodo. Quando scoprono l’Italia se ne innamorano perdutamente, e sognano la qualità di vita, che, ancora oggi, è caratteristica del nostro paese. E provano a riprodurla nelle loro case, comprando oggetti, abiti, auto italiane».

Ci sono molti italiani?

«Dai dati dell’Aire pare che il numero di italiani dal 2013 si sia triplicato, ma prevalentemente nelle zone dove si fa business, come Shenzhen o nel GuangDong, ma anche a Shanghai. A Pechino ci sono soprattutto studenti perché è la città migliore in cui studiare il mandarino. C’è da considerare che moltissimi non sono registrati all’Aire, me compresa. Mi darebbe la sensazione di una cesura definitiva con il mio paese, che non voglio sentire. Mi sento di dire che l’emigrazione degli italiani dei nostri tempi non è totale come accadeva ai nostri predecessori. Grazie alle nuove tecnologie il cordone, in fondo, non lo tagliamo mai, e per chi vive in Cina questo è fondamentale perché, per quanto tu possa integrarti e parlare la lingua, e anche se troverai comunque grande ospitalità e aiuto, in fin dei conti non sarai mai cinese, sarai sempre lo straniero a cui va spiegata qualsiasi cosa».

Quali luoghi comuni ti senti di sfatare sui cinesi e sul governo cinese?

«Cominciamo dai cani? La carne di cane qui non si mangia, anzi, quasi tutte le famiglie cinesi hanno almeno un cagnolino, spesso due, per far sì che stiano in compagnia. Ma a Yulin ogni anno c’è questo festival della carne di cane, che è una tradizione locale, lì si mangiava il cane come il maiale, la povertà è povertà. E tantissime associazioni animaliste cinesi ogni anno si schierano contro questo evento e lo contestano apertamente. Parliamo di una città di 6 milioni di abitanti, solo Pechino ne fa oltre 25 milioni. Chi condanna un intero popolo per un evento così piccolo, che sicuramente sarà presto eliminato, è la vera bestia, o semplicemente non ha altro da fare. Il Governo cinese: io non so come facciano a governare un paese del genere! Gli errori e le mancanze sono tanti, questo è certo, ma chi non vive qui non si rende minimamente conto di quanto sia complicato questo popolo, e di come sia impreparato a tutto. La censura è una misura sbagliata perché restringe le libertà? Beh, anche la disinformazione o la costruzione continua e inconsapevole di bisogni lo sono. Per dirla con parole povere, un giorno discutevo con un amico proprio di questo argomento, e per fargli capire la necessità di una misura del genere in un paese come questo, ho detto a un comune amico cinese che hanno spostato la torre Eiffel da Parigi a Londra, e ovviamente mi ha creduto, perché io sono europea, dunque io sono più informata, io so. Immaginate come sia facile manipolare un popolo che all’improvviso si è rapidamente aperto al mondo, si è confrontato con realtà completamente diverse e distanti, è venuto a contatto con nuovi aspetti culturali, musica, arte, ma anche legislazioni diverse».

Si trova lavoro in Cina o anche lì incombe la crisi economica?

«Crisi proprio no, ma che si stia in una fase di stagnazione è ben chiaro a tutti. Molti stranieri, anzi, stanno facendo le valigie, non è più così conveniente vivere qui, gli stipendi altissimi di prima facevano dimenticare tutti gli aspetti pesanti di una vita in un paese contraddittorio come questo, ma adesso che i cinesi ci pensano due volte prima di mettere mano al portafogli, i lavoratori qualificati vanno altrove. Nel mondo dello spettacolo si sente un po’ meno perché i cinesi amano qualsiasi tipo di arte, e il modo migliore per promuovere qualsiasi tipo di business è organizzare grandi eventi con artisti stranieri».

Il made in Italy com’è visto in terra cinese?

«Sicuramente, rispetto agli anni passati, c’è stato un avvicinamento e una considerazione maggiore per i cinesi (vi prego, smettetela di chiamarlo il paese del Dragone quando avete terminato i sinonimi!) e per le relazioni bilaterali che legano i nostri due paesi, così diversi, ma, in fondo, con tantissimi aspetti in comune, su cui bisognerebbe lavorare. Noi italiani siamo bravi con le idee e l’inventiva, nell’artigianato e in tutto quello che è intuitivo e bello. Il punto è che, poi, nel concretizzare, c’è sempre qualcuno che ci frega. Come gli americani, oggettivamente un popolo di limitate competenze e idee, sono, però, i “sellers” del mondo, venderebbero anche la famosa “aria fritta”, anzi, lo fanno davvero. Allora, a esempio, la pizza è italiana, ma i cinesi conoscono in primis “Pizza Hut”».

A proposito, il grande allenatore italiano Fabio Capello siede sulla panchina del Jiangsu Suning. Come viene vissuto il calcio in Cina? Qual è lo sport nazionale?

«Lippi è molto noto. I cinesi sanno bene che il campionato italiano è forse il migliore del mondo, e gli appassionati, lo seguono, e girano con magliette di Juve, Milan e Napoli (la partita disputata a Pechino, e vinta, ha reso il Napoli famosissimo). E ora anche Salernitana, quella la porto io in giro. Lo sport più amato è il basket, ma ovviamente le arti marziali sono molto praticate, anche da anziani, che vedi la mattina alle 6 nei parchi o per le strade con spade, ventagli e fruste. Ma credo che, più che come sport, alcune di queste facciano proprio parte della vita quotidiana di ogni cinese.

In Cina sono lesi i diritti democratici e la libertà?

«Onestamente non so se in quest’era si possa più parlare di diritti democratici. Voglio dire, se sai che il tuo governo manipola le informazioni allora sei consapevole che quello che leggi probabilmente non è del tutto vero, dunque ti ingegni per cercare altre fonti, che poi trovi, perché alla fine la censura di internet è bypassabile con i VPN. Molti cinesi hanno Facebook, ma non lo usano perché non parlano inglese, e preferiscono Weibo. Ma cosa succede quando, come accade nel nostro paese, siamo convinti che le informazioni siano vere, o quando le fonti siano così tante e distanti, e ognuno si sceglie il giornale, il blog, il pagliaccio di riferimento come lente per leggere la realtà? Non credo sia libertà neanche questa. La pena di morte c’è ancora, in alcuni casi bypassabile pagando, ma credo che col tempo ci si libererà anche di questa misura estrema, che ovviamente personalmente aborro. Per il resto, ripeto, parliamo di un paese immenso, con una popolazione bambina, che infrange continuamente le regole, da quelle stradali a qualsiasi altro tipo, ingovernabile. Giudicare dall’alto delle nostre conquiste civili e sociali, che poi abbiamo violentato, non aiuta a comprendere questo paese, e fare muro a una delle più grandi potenze economiche mondiali e culla di una civiltà antichissima usando la bandiera dei diritti è davvero da ipocriti e ottusi».

Lo scorso 1° luglio, è stato festeggiato il ventesimo anno del passaggio di Hong Kong alla Cina? Che aria si respira a riguardo. Quella regione è davvero così diversa dal resto del Paese? «Io vivo nella capitale, e del 1° luglio non è fregato nulla a nessuno. Nessun evento o celebrazione, alla massa importa poco. Hong Kong è Cina, ma chi ci abita non è considerato propriamente cinese, anche la lingua è diversa. Sembra una Cina occidentalizzata, in fondo è soprattutto un hub per mercati e business, un posto dove fare affari e dove per anni potevi fare un visto fake per la Cina, che il governo cinese ti dava per valido. Come tutte le rivoluzioni dipinte di indipendentismo anche quella degli ombrelli la leggerei sotto chiave economica».

Consiglieresti a un giovane di trasferirsi in Cina?

«Dipende. Se si ha un interesse specifico per questo paese e si intende studiarne la lingua e la cultura, o se si ha già un lavoro interessante e ben pagato con un’azienda che si occupi di tutto, allora sì. Ma avventurarsi tanto per cercare fortuna è folle, qualcuno lo fa, e poi ovviamente torna a casa. Questo non è un paese europeo, qui siamo su Marte, non ci si può trasferire in Cina da un giorno all’altro a cercare lavoro, senza arte né parte, non è mica l’America dei primi flussi di emigrazione, dove era tutto da costruire e inventare. Questo è un paese che si rinnova di giorno in giorno, ma con radici saldissime, più di quanto possa sembrare, molto nazionalista e con una popolazione che ha passato diversi anni sola con se stessa, e che vive con estrema difficoltà l’interazione con gli stranieri».

Il rapporto con gli Stati Uniti: una riflessione.

«La Cina guarda agli Stati Uniti con grande invidia e allo stesso tempo enorme disprezzo. Dall’altezza di un’antichissima cultura come quella cinese, i rozzi americani sono visti come esperti business man, da cui apprendere il più possibile, e di cui liberarsi, una volta assorbito tutto il know-how necessario».

Cosa ti manca di Salerno. E cosa manca a Salerno per diventare una grande città?

«La passeggiata sul mare, il caffè sul corso, il sole che ti abbraccia il sabato pomeriggio al centro, i giri in auto Mercatello-via Carmine, l’energia dei salernitani, la loro voglia di vivere e l’arte di rendere qualsiasi aspetto della vita bello. Una città bellissima, invidiata da tutti, di cui continuo a portare il nome in giro, perché, per quanto ami anche Napoli, io sono di Salerno, non “vicino Napoli”. Uno dei motivi che mi ha spinto ad andar via è il modo in cui è stata amministrata; gli spostamenti di popolazione dal centro, ripulito dai meno abbienti, a una periferia che è diventata ghetto, abbandonata e lasciata a se stessa. Basti pensare a Matierno, o altri quartieri in cui a un bambino non è data la stessa possibilità di chi vive in altre zone. La morte sociale, l’arte minacciata e rinchiusa negli scantinati, i giovani non figli di papà fuggiti con la loro città nel cuore. Salerno ha bisogno di un motore portante, che potrebbe essere, certo, il turismo, ma quello vero, di qualità, ricco, che farebbe base qui, per poi andare in giro per le due costiere. A parte l’amalfitana, io sono legatissima a quella cilentana. Omignano, il suo cuore incantevole, e Acciaroli, bellissima e totalmente funzionale e attiva, la cui amministrazione andrebbe presa come esempio. Ma anche altre tantissime zone, piene di giovani in gamba (non giovani e basta) a cui è data la possibilità di organizzare, e che cercano di rivitalizzare un tessuto culturale che era addormentato. O anche esempi come il progetto “Primavera non bussa” a Scafati, un gruppo di giovani che si è messo a lavorare sodo per dare un’altra faccia a una città governata male e in maniera anacronistica. Tanti esempi meravigliosi di organizzazioni fresche e costruttive. Questo è quello che manca alla mia Salerno, che rivedrò molto presto, finalmente».

Davide Speranza

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