Dom. Ott 13th, 2024

La Meglio Gioventù: Cremone e la voglia di curare la propria gente

Parigi – È sempre più difficile parlare di Sanità, in Italia. Spulciando i dati nazionali, si scopre che, negli ultimi anni, il numero di giovani medici che hanno preferito costruire il proprio percorso professionale in paesi stranieri è aumentato dall’ordine della centinaia a quello delle migliaia. Al Sud, la complessità gestionale aumenta. Ospedali che chiudono, taglio ai servizi, condizioni igienico-sanitarie degradanti, prospettive di lavoro ai minimi termini. La Sanità Pubblica bistrattata, con la conseguente crescita di quella privata e la nascita di mostri bicefali – senza controllo – come le cliniche convenzionate. Eppure, ancora una volta, le eccellenze nel campo medico internazionale vengono tutte dall’Italia, in particolare dal Sud. Il problema è che questi cervelli in camice bianco continuano a fuggire dal made in Italy. Niente di nuovo sotto il sole: secondo recenti dati Istat, i giovani (tra i 15 e i 34 anni) che hanno lasciato il nostro paese, nel 2012, sono ben 26070: mete preferite, soprattutto Germania, Svizzera e Inghilterra. In questo gioco al massacro, Cristiano Cremone, 34 enne originario di Nocera Inferiore in provincia di Salerno, ha deciso di invertire il processo migrante. Da Parigi, dove si trova per un progetto internazionale di medicina, intende impegnarsi a tornare nella sua terra per curare la sua gente. Laureato presso la Seconda Università di Napoli con specializzazione alla Federico II in Chirurgia generale, è esperto di sport pericolosi: moto, kitesurf, snowboard, pesca subacquea, trial. Forse anche per questo, con la forza dell’ironia e dell’azzardo, vuole rituffarsi nell’inferno della sanità meridionale.

Cristiano, perché ti trovi in Francia?

«Per caso. Ma, visto che il caso non esiste, immagino sia per crescere. In effetti a pensarci bene sono in Francia, da un anno, per crescere professionalmente e non solo. Proiettato qui da un progetto internazionale che permette, a un dottorando, di trascorrere 18 mesi in un qualunque paese dell’UE, avendo alla fine un titolo non solo italiano. Non è facile allontanarsi dal nostro sistema, dovendo sudare non poco per avere tutte le autorizzazioni, senza considerare la necessità del beneplacito del Coordinatore. Ecco perché dicevo. Per caso. Per caso, tutto è andato bene».

In cosa consiste il tuo lavoro?

«Il dottorando. Vuol dire, trovare una buona ragione per ricercare qualcosa di interessante e lavorare su quella buona ragione fino ad avere, si spera, dei buoni risultati. Ovviamente, sei uno straniero che è trattato come l’ultima ruota del carro, messo a fare le cose che nessuno vuole fare. Ho preso quindi due progetti interessanti iniziati da circa 1-2 anni. Nessuno aveva la voglia di completarli. Si trattava di fare ricerche bibliografiche e due database. Il secondo l’ho terminato da pochi giorni. 8 mesi passati al computer per raccogliere i dati di 7mila pazienti. Per contro, il professore era talmente contento del lavoro che facevo, che mi ha inserito come primo autore. Così andrò a presentarlo a marzo a un congresso. A tutto questo aggiungi il lavoro di chirurgo. Per intenderci, il mio mese tipo è 28 giorni di lavoro e un weekend di vacanza. Poi, i corsi di francese e i due diplomi universitari di chirurgia cui mi sono iscritto».

Da dove nasce l’amore per la medicina?

«Credo sia qualcosa di innato voler fare del bene. Non per questo bisogna per forza fare il medico. Ma di sicuro ho avuto la possibilità di vedere cosa quel bene può fare, se impegnato nella medicina. Ho visto la speranza riapparire negli occhi di tante persone. Di certo non avevo tutto così chiaro nella testa, il primo giorno di università. Ma evidentemente le idee che c’erano quel giorno mi hanno portato lontano».

La differenza tra Italia e Francia, nella ricerca.

«Credo che siamo al primo posto per la ricerca in tanti ambiti e sinceramente posso parlare solo della esperienza universitaria meridionale. Se ne fa poca. Mal pagata. Ma se hai la fortuna di capitare con un buon professore, può funzionare. Comunque non è facile e credo che siamo davvero lontani da altri paesi. A Londra, quando sono stato lì per fare un periodo di formazione, la prima cosa che mi hanno detto all’Università è stato: “Se hai una buona idea, diccelo. Noi te la finanziamo. È questo il nostro modo per arricchirci”. In effetti, questo è il modo che le università hanno per imporre il proprio nome sulle altre. Sono interessate ai giovani. Alle idee. Ed è assurdo come ci siano così tanti nomi italiani in lavori scientifici di paesi che non sono l’Italia».

Come sta la sanità italiana?

«Al top per tante cose. Noi più filo americani. I francesi assolutamente attaccati alla loro scuola. Le grandi scuole si equivalgono. Mi trovo in un centro di eccellenza per la chirurgia epatica e non fanno altro che nominare i centri italiani come metro di paragone. Comunque credo che, legati anche a un sistema misto, pubblico-privato, e al fatto che di base è “più serio” del nostro, loro hanno più soldi da investire. Questo determina la qualità complessiva del servizio. Che non si limita al solo ricovero, ma al prima e soprattutto al dopo. Una volta, abbiamo fatto una richiesta perché una persona andasse a cucinare a casa di una paziente che per i primi 20 giorni non poteva assolutamente fare sforzi. Pagato dal sistema sanitario. Geniale!»

Vivere all’estero, pone una differenza?

«Non è la cosa più semplice del mondo e non solo per la lingua o per la distanza da famiglia e amici. Di fatto le nostre università sono molto diverse da quelle di altri paesi. Per la scuola di chirurgia le differenze sono abissali. Non è facile. E in più, se da un lato siamo simpatici e piacciamo a tutti, dall’altro questo genera qualche “gelosia”. Venendo dal sud, poi, siamo in tutto il mondo additati come il paese della “mafia, pizza e mandolino”. Diciamo che siamo a recupero, senza neanche aver cominciato. Per fortuna siamo – e parlo al plurale perché qui ne ho conosciuti davvero tanti – siamo dotati di una grande forza di volontà. E poi, come dico sempre per scherzare, siamo stati forgiati tra le fiamme dell’inferno. Tutto il resto del mondo ci risulta facile. Più di una volta mi sono sentito domandare, da colleghi francesi, perché veniamo in Francia quando abbiamo la nostra “bella Italia”. E la risposta – al di là della stupida legislazione, che mette un medico in formazione nelle condizioni di non fare niente se non rischiando il suo stesso avvenire – è una incomprensibile voglia del nostro paese di soffocare i giovani, quando gli altri ne fanno tesoro».

Hai intenzione di rimanere in Francia

«No. E parto da un presupposto: si vive bene, tranquillamente, un bellissimo paese, professionalità rispettata, condizioni lavorative ottime (credo che se uno volesse potrebbe arrivare a prendere 10 giorni di vacanza al mese), oltre che in molti casi meglio pagate. Ebbene, casa è pur sempre casa. Ho sempre immaginato di curare la mia gente e di lavorare per rendere il mio paese migliore. Un paese che non funziona tanto bene ma che persone di buona volontà cercano nel loro piccolo di far girare. E io voglio essere una di queste. L’unica cosa che noto con rammarico è che quella stessa popolazione cerca di metterti in difficoltà. Guardando il tutto dall’esterno, mi sembra sempre più chiaro che l’idea della politica è mettere gli uni contro gli altri. In questi giorni ho letto di un medico aggredito da un paziente perché non era stato prescritto un esame. Io stesso, avendo lavorato in pronto soccorso a Napoli, ho visto medici continuamente esasperati da pazienti a loro volta esasperati. Come se potessimo poi aumentare i posti o cambiare le liste di attesa. Noi siamo là per curare. Curare tutte quelle persone semplici che non sanno niente delle difficoltà che un medico passa, per arrivare a quel punto. Noi siamo là perché non siate soli. Per caricarci dei vostri pensieri. E vi assicuro che questo in Francia non lo insegnano. Noi viviamo ancora questo lavoro come una missione. Come San Giuseppe Moscati, e tanti altri come lui meno conosciuti, ci ha insegnato».

In Parlamento si sta discutendo in questi giorni di “responsabilità professionale del personale sanitario” e dell’istituzione del Registro nazionale e regionale sui tumori. Cosa pensi dell’una e dell’altro?

«Per la legge sulla responsabilità del medico, credo sia giusto fare qualcosa. Non mi sembra male il progetto di legge ma non mi pare abbastanza. Siamo l’unico paese d’Europa, e uno dei 3 paesi al mondo, dove il medico è responsabile penalmente. Il registro dei tumori nazionale è una ottima cosa, per quanto le singole regioni abbiano differenze importanti tra loro ed è importante poterne seguire l’evoluzione a livello locale».

Perché la sanità in Campania resta in regime di emergenza?

«Anni di sprechi. Volontà della politica nazionale. Dopo l’ultima analisi del rapporto posti letto per abitanti, noi siamo a circa 900 in meno, contro altre regioni come la Lombardia e il Lazio, che sono a più di 1000 in più, e noi ancora chiudiamo ospedali. I nostri politici hanno di certo “ottimi meriti” in tutto questo. In più gli incarichi di direzione sono esclusivamente politici».

Come giovane medico, quale consiglio senti di dare a chi inizia adesso il primo anno di medicina?

«Poche parole. Il medico non è un gioco. Ci saranno vite di fronte a voi e a queste ne saranno legate altre. Scegliete bene la vostra branca e fatelo davvero per aiutare e non per guadagnare o per acquisire l’immagine di medico. È fondamentale avere una enorme forza di volontà. Di stronzi che proveranno a farvi cambiare idea ne troverete tanti. Tantissimi. Molti abbandoneranno. Prima durante e anche dopo la laurea. Spesso non è quello che immaginiamo. Andate negli ospedali e vedete che succede. Se dopo tutto questo siete ancora sicuri, allora è davvero questa la vostra strada. Fate tesoro delle esperienze buone e cattive e non vi fidate mai di ciò che vi viene detto. Cercate, studiate. Internet esiste per questo. Ultimo consiglio. I primi di cui non fidarvi siete voi stessi. Io controllo sempre due volte quello che scrivo, quello che leggo, quello che faccio. Questo non evita sbagli, ma il nostro tasso di errore, quasi non esisterà. Cosa che fa davvero bene a tutti. A noi per primi!»

Davide Speranza

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