Ven. Apr 19th, 2024

L’olio d’oliva, la signora Maria e lo spauracchio tunisino

Cara signora Maria, lei che al supermercato, tra decine di bottiglie d’olio, ha l’imbarazzo di scegliere quello buono per la sua cucina e che perplessa tenta di risolvere la relazione logica tra la notorietà del marchio dell’imbottigliato, la qualità del prodotto e il giusto prezzo, ha tutta la nostra stima e solidarietà; e scusi il tono confidenziale.

I talk show televisivi degli ultimi tempi, per aiutarla, le hanno servito nuovi elementi di confusione e preoccupazione. Le hanno spiegato – più o meno chiaramente – che l’olio venduto in Italia, a seconda della provenienza e del prezzo di vendita, o è un alimento frutto di biodiversità eccellenti o è il magico risultato di alchimie chimico-fisiche-commerciali. Poi, giusto per mandarla in paranoia, l’hanno avvertita che i migranti del nord Africa porteranno dal mare – nei prossimi due anni – 70mila tonnellate di olio tunisino, mettendo a repentaglio la qualità generale del nostro prodotto, la salute della sua famiglia e il lavoro dei nostri produttori.

Signora Maria, ci scusi, le chiediamo ora un ulteriore sforzo di paziente attenzione. Nell’immagine che segue proviamo a spiegarle, in maniera schematica, quali sono i prodotti della lavorazione dell’olio. Il processo è assolutamente standard, comune a tutte le latitudini, e può essere utile a capire meglio di cosa stiamo parlando.

Come avrà avuto modo di vedere, al di là delle caratteristiche e dei processi per ottenerli, sono quattro i tipi di olio che si ottengono dalla frangitura delle olive da olio: Olio d’oliva vergine corrente, Olio extravergine d’oliva (EVO), Olio vergine d’oliva e Olio di oliva vergine lampante.

L’Olio di sansa di oliva è invece considerato un sottoprodotto ottenuto dai residui della frangitura.

Ogni tipologia ha un profilo definito, determinato in una precisa classificazione di base, ma è inutile che provi a cercarle sull’etichetta della bottiglia: non ci sono. Dovrà quindi fidarsi della categoria generale di appartenenza, dichiarata in bella mostra a caratteri grandi, per essere certa – a esempio – che, quando acquista Olio Extravergine d’oliva, all’assaggio questo avrà sapore e aroma perfetti e un’acidità (acido a-linoleico) inferiore all’1%. Ma davvero, davvero?

Ora ci perdoni se, per spiegarle ancora meglio, siamo costretti a sgranare qualche dato confidando nella sua indiscussa capacità di economista di famiglia.

Il fabbisogno di olio d’oliva in Italia si aggira, in media, sul milione di tonnellate; la produzione nazionale di quest’anno (2015) è andata bene perché, rispetto alla scorsa campagna, se n’è prodotto circa il 70% in più, ossia 380 mila tonnellate, un incremento quantitativo ritenuto anomalo nel panorama produttivo italiano (dati ISMEA, 11 febbraio 2016).

Ora tenga presente che l’Italia ne esporta 400 mila tonnellate. Si chiederà, a questo punto, come sia possibile. I conti non le tornano? Bella domanda.

Lasciamo fuori dai calcoli il prodotto di eccellenza certificata (Dop e Igp): fa storia a sé e in quantità annuale vale più o meno 10 mila tonnellate, cioè intorno al 3% del totale.

“Le produzioni a denominazione riconosciuta sono 42 (41 Dop + 1 Igp), ben distribuite su tutta la penisola; le quantità maggiori provengono da Toscana, Puglia, Sicilia, Umbria e Liguria. La Campania si attesta intorno all’ottavo posto. Sono oli extravergini questi dotati di caratteristiche organolettiche eccezionali, frutto di una biodiversità unica tutta italiana, che alla produzione variano sensibilmente di prezzo: dai 20€/kg del Brisighella ai 5,30€/kg del Terra di Bari”.

Torniamo invece al prodotto che più le interessa, cioè quello che la rende perplessa dinanzi allo scaffale: com’è fatto e da dove viene quest’olio? Sono le sue legittime domande che a questo punto sorgono spontanee.

Le risposte a cui tiene dovrebbero essere indicate in etichetta, prima di ogni altra l’origine.

Lei, quindi, dovrebbe essere in grado di capire agevolmente se l’olio che sta acquistando sia una miscela che arriva dall’area comunitaria e/o da paesi produttori extra UE (e quali) oppure se sia ottenuta da soli oli italiani.

Le altre risposte sono indicate, come obbligatorie in etichetta, dal regolamento comunitario 29/2012 e sono le seguenti:

1. La categoria di appartenenza (denominazione di vendita);
2. La quantità netta espressa in litri;
3. Il termine minimo di conservazione, ovvero la data del preferibile consumo;
4. Il nome e la ragione sociale o il marchio depositato, nonché la sede del fabbricante; 5. La sede dello stabilimento di produzione o di confezionamento;
6. Una dicitura che consenta di identificare il lotto di appartenenza del prodotto;
7. I fattori nutrizionali.
Il successivo regolamento UE n°1335/2013 ha poi disposto che tali informazioni dovevano essere ben leggibili, riportate nello stesso campo visivo principale, le scritte obbligatoriamente uniformi per non indurre in errore il consumatore e che era indispensabile l’indicazione sui metodi di conservazione ottimali, prima facoltative.

Le chiediamo retoricamente se è così. Ora, sperando che non si sia persa, la invitiamo a fare insieme a noi due conti: facili, facili.

Ricapitoliamo: in Italia consumiamo un milione di tonnellate di olio, ne produciamo 380 mila e ne esportiamo – con indicazione di provenienza tricolore – 400 mila. Da dove arriva tutto quest’olio?

Il maggiore fornitore di Olio per il nostro paese è la Spagna (270 mila), a seguire la Grecia (125 mila), la Tunisia (85 mila), il Portogallo (10 mila) e il Marocco (3 mila). Tutto il resto, per quadrare i conti, proviene da ogni dove e vale la differenza (valori espressi in tonnellate).

Al netto degli scandali per le sofisticazioni, alcuni dei quali hanno coinvolto notissimi prodotti dall’etichetta italiana ma di proprietà spagnola, ci confrontiamo con aspetti oscuri, forse allarmanti, che lasciano legittimi dubbi su quale olio portiamo in tavola.

C’è, infine, chi sceglie di approvvigionarsi direttamente dal piccolo produttore agricolo, sperando di sfuggire alle perverse dinamiche industriali e commerciali. Attenzione, questa filiera cortissima sfugge spesso al controllo qualitativo e non sono rari i casi di acquisti di Olio lampante passato inconsapevolmente (visto che è consumato dagli stessi produttori) per extravergine.

Le considerazioni finali emergono da un’ultima domanda retorica: Che male fanno allora 70 mila tonnellate di olio tunisino, che ha la sola colpa di non essere gravato da dazi, importato per un accordo eccezionale in due quote annuali da 35 mila tonnellate e distribuito tra i paesi membri dell’UE?

Tranquilla Signora Maria, nessun danno per la qualità generale, per la salute della sua famiglia e per i produttori italiani (i cui problemi sono ben altri e di diversa origine), visto che l’olio made in Tunisia è già qui da tempo. Per la precisione*.

Francesco Paciello

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