Gio. Dic 5th, 2024

Il senso del viaggio in letteratura

Il viaggio non è solo la scoperta di un luogo fisico, ma è, soprattutto, avventura dello spirito, che può modificarci profondamente, modificando la percezione – o la rappresentazione – che abbiamo del mondo e di noi stessi. E, infatti, le arti, e la letteratura in particolare, fin dall’antichità, hanno preso in esame il tema del viaggio come cammino dell’uomo alla scoperta del mondo e di sé. Il viaggio, dunque, può essere un percorso esistenziale, può esprimere inquietudine o insoddisfazione di fronte alla banalità e alla sicurezza del quotidiano; può esprimere il coraggio dell’uomo che accetta di mettersi alla prova, pur consapevole dei rischi di un percorso incerto, per la sfrenata sete di conoscenza, come lo fu per Ulisse. Ma nel corso della storia, la letteratura ci ha consegnato varie interpretazioni del viaggio: se il viaggio nell’antichità comportava prevalentemente mistero, smarrimento, rischi e pericoli, oggi può essere maggiormente sinonimo di svago, piacere e arricchimento culturale. Ma resta comunque un significato esistenziale che, probabilmente, determinando un senso di vuoto nell’animo umano, deve essere colmato. Rappresentando poi, al contempo, uno spaccato della società del tempo e rapportandosi con questa, attribuisce di volta in volta un significato preciso al tema del viaggio che diventa una combinazione sempre diversa di elementi imprescindibili come scoperta, pericolo, fuga, crescita, esilio, speranza e disperazione. Vediamo allora brevemente il “senso” del viaggio nella storia della letteratura.

L’“Epopea di Gilgamesh”, scritto in caratteri cuneiformi su tavoletta d’argilla che risale a circa 4500 anni fa, è il poema più antico e narra le gesta del re sumero che conobbe il mondo e divenne saggio in tutte le cose grazie ai suoi viaggi. Al suo ritorno incise su pietra l’intera storia per le generazioni future. L’“Odissea” di Omero è sicuramente il viaggio più ricco di significati: Non è solo un ritorno alla nativa Itaca, ma è formidabile rappresentazione plastica della natura dell’uomo, alla continua ricerca della conoscenza, della sfida e del nuovo. Dopo dieci anni di guerra e dieci anni di viaggio – tanto impiega per tornare nella sua terra – Ulisse riabbraccia la moglie Penelope e il figlio Telemaco. Ma non è solo un viaggio circolare, simbolicamente e fattivamente di andata e ritorno, ma soprattutto il superamento di mille ostacoli, di mille prove e di mille esperienze dati dalla continua sete di conoscenza, di sfidare realtà sconosciute, occasione di confronto con un mondo nuovo, e di adattamento a situazioni imprevedibili. Un’altra tra le più note narrazioni della mitologia greca, quella degli Argonauti, descrive il viaggio avventuroso di circa 50 uomini a bordo della nave Argo che, sotto la guida di Giasone, li condurrà nelle ostili terre della Colchide, alla riconquista del vello d’oro. Il senso di questo viaggio è la consapevolezza del vuoto nelle cose e nell’esistenza umana, espressione di un’epoca di crisi, quella ellenistica, di valori e certezze uniti a una visione pessimistica dell’esistenza. La prima bucolica di Virgilio, narra del doloroso distacco di chi lascia le proprie cose:

Ambientata in una campagna mantovana, oppone i destini dei due personaggi principali, Titiro e Melibeo. Mentre Titiro è placidamente sdraiato sotto un ampio faggio, osserva Melibeo partire per un esilio senza possibilità di ritorno. Partire assume quindi un significato doloroso, una lacerazione con il passato, un taglio non solo di chi lascia le proprie cose ma anche gli affetti. Con l’“Eneide”, invece, lo stesso Virgilio compone un poema epico che narra la leggendaria storia di Enea, eroe troiano fuggito dopo la caduta di Troia che intraprende un viaggio faticoso e doloroso per il Mediterraneo fino ad approdare nel Lazio per fondare una nuova città, una nuova patria, un nuovo popolo. Il viaggio quindi è il compimento di una nuova rinascita, di un nuovo inizio, di una nuova vita. Con la nascita del Cristianesimo il senso del viaggio assume un significato verticale, come un passaggio dal corpo allo spirito, dall’imminente al trascendente, dall’uomo a Dio. Dante Alighieri, infatti, nella “Divina Commedia” dovrà attraversare prima l’Inferno, poi il Purgatorio e infine il Paradiso come acquisizione di conoscenza che conduce a Dio, mentre il viaggio dell’Ulisse dantesco è definito dal poeta fiorentino come “il folle volo” perché l’eroe greco è mosso dalla sete spasmodica di scoprire che lo porterà alla morte, poiché privo della grazia di Dio. Ma dal XII secolo in poi, ci fu anche la ripresa di narrare l’esperienza reale del viaggio. È il caso di Marco Polo che giunse in Cina percorrendo la via della seta. “Il Milione” narra il viaggio e la permanenza in Asia del mercante della Repubblica di Venezia, trascritto in francese da Rustichello di Pisa. Si iniziano ad aprire scenari nuovi; venivano intrapresi i viaggi sotto la spinta di esigenze commerciali e religiose. Le scoperte geografiche successive, infatti, da Cristoforo Colombo – che scopre l’America nel 1492 – fino alla scoperta dell’Australia da parte di James Cook – nel 1770 –, ebbero inevitabilmente implicazioni e conseguenze etiche, filosofiche, religiose, politiche e scientifiche dal momento in cui l’uomo europeo cominciava a confrontarsi con mondi e popoli profondamente differenti. L’Illuminismo utilizzerà la descrizione dei viaggi nei Paesi lontani per esaltare il principio della Ragione e del relativismo contro i dogmatismi religiosi e i sistemi politici assoluti. Nell’età romantica però si assiste a una frattura fra l’esperienza reale del viaggio e la letteratura. Il tragitto non è più considerato scoperta di mondi reali sconosciuti, ma un viaggio interiore alla ricerca di una individualità inespressa e soffocata dal ristretto ambito sociale. Si sente il bisogno di un ritrovamento del proprio io più profondo, e il viaggio assume un significato negativo, quasi un’anticipazione della psicoanalisi e dell’inconscio freudiano. È il caso del “Faust” di Goethe a esempio, un poema drammatico che racconta il patto tra Faust e Mefistofele, un viaggio alla ricerca dei piaceri e delle bellezze del mondo, e si conclude con la redenzione del Faust e della sua identità. Oppure “Il Battello Ebbro” di Rimbaud, che ripropone il tema del viaggio in senso metaforico che scardina le ragionevoli certezze della realtà.

La letteratura del Novecento invece descrive il viaggio come una vana ricerca di un senso della vita dell’uomo. È il caso dell’“Ulisse” di James Joyce, considerato uno dei più importanti romanzi della letteratura del XX secolo, che ripropone il topos del viaggiatore greco nella moderna città di Dublino. Originale lo stile narrativo poiché molte parti del racconto sono senza punteggiatura, a indicare quella particolare tecnica di scrittura chiamata “flusso di coscienza”. L’“Ulisse” di Joyce, a differenza di quello omerico, sottolinea quasi con ironia la totale mancanza di eroismo, di valori, di amore e di fede ormai perduti nel mondo moderno.

Nel secondo dopoguerra, il filosofo e antropologo francese Claude Lévi-Strauss, ha 541

saputo mettere in evidenza il senso della fine o della trasformazione del viaggio. In effetti, con i nuovi e veloci mezzi di trasporto, se da una parte hanno consentito di eliminare difficoltà materiali riducendo la fatica negli spostamenti, dall’altro scomparvero elementi importanti come l’aspettativa dell’ignoto e la scoperta del diverso. Il viaggio divenne così un fenomeno di massa e non più una ricerca individuale. Ed ecco quindi che la “Beat Generation” di Allen Ginsberg e Jack Kerouac, che nasce tra le altre cose come il rifiuto del materialismo e delle norme imposte, il viaggio viene visto non tanto come un senso di fuga dalle responsabilità, ma per fondare nuove regole e stili di vita diversi. Più precisamente, con il romanzo di Kerouac dal titolo “On the Road”, il viaggio diventa una continua ricerca della libertà collettiva e individuale e nello stesso tempo una critica della religione e del capitalismo americano che creano alienazione nell’uomo.

Nel 2016 è stato pubblicato da Polis SA Edizioni, il libro di Mimmo Oliva e Peppe Sorrentino dal titolo “Mi chiamo Thiago”. Anche qui gli autori hanno voluto rappresentare l’uomo contemporaneo e il suo rapporto con il mondo attraverso un viaggio metaforico; un cammino difficile, incerto, tortuoso ma che vuole condurre Thiago verso una completa libertà fuori da ogni Sistema. Anche il cinema ha trattato il tema del viaggio e i suoi molteplici significati. In “2001: Odissea nello spazio”, tra i tanti significati che emergono dal film, Kubrick immagina il viaggio siderale dell’uomo come un ritorno all’innocenza. Il film infatti si conclude con le immagini di un bambino astrale che guarda verso la telecamera, a indicare l’importanza di continuare il nostro viaggio ma nello stesso tempo ci esorta a liberarci da tutte le sovrastrutture che la società ci impone e vedere la realtà con occhi nuovi.

Da sempre l’uomo ha sentito un desiderio irrefrenabile di viaggiare, forse perché, come dice Marcel Proust: «Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi».

Sante Biello

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