Violenza giovanile: uccidere per vedere che effetto fa
Le recenti cronache di minori che uccidono rivelano un vuoto esistenziale inquietante, oltre la spettacolarizzazione sui social. Un grido d’allarme che interroga la società tutta
IN PUNTA DI PENNA
Gli editoriali del Direttore di Redazione Antonello Rivano
– La penna è la lingua dell’anima (Miguel de Cervantes)-
La cronaca recente ci consegna un quadro inquietante: un’escalation di episodi di violenza tra i minori, sintomo di un malessere che ci interroga profondamente. Ragazzi che uccidono non per necessità, ma per curiosità. “Volevo scoprire che cosa si prova ad uccidere”, ha dichiarato un diciassettenne dopo aver tolto la vita a una donna. Parole che colpiscono per la loro crudezza, che si aggrappano all’anima con un peso insostenibile. Non sono state pronunciate per ottenere visibilità sui social, ma come espressione di un vuoto profondo, di un desiderio malato di sperimentare l’orrore.
Non è solo la spettacolarizzazione della violenza a segnare questi episodi. Non questa volta. Gli ultimi delitti compiuti da minori non sono stati filmati, non sono diventati virali sui media. Restano confinati nel buio di un’intimità distorta, dove la vita umana viene trattata come una variabile da manipolare, un esperimento da condurre senza riguardo per le conseguenze.
Siamo di fronte a una crisi che sembra non avere confini. Da un lato, la fragilità adolescenziale che, nel tentativo di riempire un vuoto, si avvicina alla violenza come se fosse una scoperta da fare, un confine da oltrepassare. Dall’altro, un mondo adulto che non sempre riesce a cogliere il segnale in tempo, troppo concentrato su altre emergenze.
Questi atti non sono solo il risultato di un disagio individuale, ma di una crisi collettiva: la famiglia, la scuola, le istituzioni, il web – tutti gli spazi in cui un giovane si forma o si deforma. Se oggi un adolescente fatica a distinguere tra realtà e rappresentazione, tra vita e spettacolo, è perché il confine è diventato sempre più labile. La violenza diventa allora un linguaggio, un segnale, forse un grido di aiuto che nessuno ha saputo cogliere in tempo.
C’è un dato che fa riflettere: molte delle dinamiche criminali che coinvolgono i minori sembrano derivare dalla pressione sociale e dalla dispersione scolastica. La marginalizzazione, combinata alla spettacolarizzazione della violenza sui social, alimenta un circolo vizioso che sembra sfuggire a ogni forma di controllo. Eppure, i recenti episodi, come quello del diciassettenne, ci mostrano che non tutto si esaurisce nella ricerca di visibilità online: c’è anche un vuoto esistenziale che porta a un’atroce indifferenza verso la vita altrui.
Abbiamo il dovere di guardare oltre il sensazionalismo e di affrontare il problema per quello che è: una crisi della nostra capacità di relazionarci e comprendere le nuove generazioni. Più che mai, la famiglia, la scuola e le istituzioni devono farsi carico di ricostruire un tessuto emotivo che sembra essersi sfilacciato. Non possiamo permettere che i giovani arrivino a considerare la vita altrui solo come una variabile da controllare in un tragico esperimento senza ritorno.
Antonello Rivano
Direttore di redazione/coordinatore nazionale Polis SA Magazine