
L’economia della pesca: tradizione, sostenibilità e sfide future
Dal romantico sguardo di Tabucchi alla bioeconomia, un viaggio tra la fatica dei pescatori, la sostenibilità delle risorse ittiche e le trasformazioni economiche globali
DI Massimo Bramante
Una delle più fantasiose e suggestive pagine del compianto scrittore Antonio Tabucchi reca il titolo “Una balena vede gli uomini” (trattasi del Post Scriptum a “Donna di Porto Pim”). Come vede gli uomini, i pescatori, che come lei, la balena, solcano i mari? Li vede “sempre più affannati e con lunghi arti che spesso agitano”. Li vede nelle loro barche “scivolare sul mare, ma non nuotando, quasi fossero uccelli”. Li vede frequentare arditamente le acque degli oceani “pur temendole”. Infine – ultime parole del bellissimo scritto di Tabucchi – li vede “stanchi, quando cala la sera, distendersi sulle piccole isole che li conducono e forse si addormentano o guardano la luna. Scivolano via in silenzio e si capisce che sono tristi”.
La balena di Tabucchi che scruta i pescatori che incrocia nel suo/loro scivolare lento tra le onde (loro sopra/lei sotto) si stupisce della loro tristezza. Noi umani no. Sappiamo da sempre che la pesca, di giorno e di notte, è duro lavoro, fatica, non raramente contornati da cocente disillusione. La balena di Tabucchi è avvolta in un romanticismo malinconico, non sa che la pesca – fonte primaria di sopravvivenza per chi la pratica e ne trae sostentamento – concorre non poco alla crescita delle economie (mercato delle risorse ittiche); in particolare – grazie all’esportazione e ai processi di conservazione industriale del pescato – di quelle dei Paesi più poveri del globo terracqueo.
La prima metà del XX secolo ha visto svilupparsi un ricco e fecondo filone di studi che ha inteso connettere sinergicamente (cross-contamination) discipline biologiche e discipline economiche e, in particolare, ha visto nascere una nuova disciplina: la bioeconomia delle risorse ittiche. Il biologo inglese E.S. Russel pubblicava, nel lontano 1931, un fondamentale testo in tema di “Overfishing problem”. Il suo modello predittivo si presenta ancor oggi tanto semplice, formalmente, quanto di stupefacente attualità. Sintetizzando: se nel periodo zero il peso delle risorse ittiche pescabili è pari a S°, nel periodo successivo uno sarà pari a S¹, “ed esso varierà in funzione della crescita (in peso) della popolazione sopravvissuta, del reclutamento di nuovi animali pescabili (ossia di coloro che transitano dallo stock non pescabile a quello pescabile, avendo superato la lunghezza minima), della mortalità naturale e della mortalità da cattura” (cfr. Vito Pipitone, “Sulle origini della bioeconomia – Il processo di integrazione tra la biologia e l’economia delle risorse ittiche” – Studi e Note di Economia, n.2/2005).
Attenzione quindi – suggeriva Russel quasi un secolo fa – che il tasso di crescita del pescabile e del reclutamento sia più o meno pari al tasso di mortalità e di cattura del pesce, perché se il tasso di cattura dovesse crescere oltre un certo valore, il numero dei riproduttori potrebbe ridursi così drasticamente da determinare, nei periodi successivi, una deleteria contrazione del tasso di reclutamento.
Le risorse ittiche sono dono della natura. Pertanto sono (come ogni risorsa del globo terracqueo) esauribili. Tutt’altro che infinite. Occorre pertanto trovare un giusto equilibrio (tanto biologico quanto economico) tra rendimento economico massimo e sostenibilità biologica nel tempo. Un giusto equilibrio che dovrà basarsi – secondo due biologi dotati di solide basi statistico-economiche, William Thompson e Heward Bell – sull’incrementare l’intensità di pesca fino al punto in cui il minor numero di riproduttori non comprometta la formazione di nuovi riproduttori o i maggiori costi di produzione e conservazione del pescato non riducano i profitti dell’industria della pesca e conseguentemente l’occupazione nel settore.
L’economia ha necessità di trasformarsi, seppur gradualmente, in bioeconomia: una sorta di “altra economia”, un’economia biologicamente e socialmente sostenibile nel tempo. Uno dei teorici di questo innovativo paradigma è stato l’economista e matematico rumeno Nicholas Georgescu-Roegen (1906-1994). La sua teoria bioeconomica – scrive Mauro Bonaiuti (Introduzione a N.Georgescu-Roegen, “Bioeconomia”, 2003) – “rappresenta il primo e più rigoroso tentativo di ancorare l’economia alle scienze della vita e, indirettamente, alle scienze sociali”. Similmente, Romano Molesti (rivista “Economia & Ambiente”, n.6/2006) osserva: “La bioeconomia ci dice che la terra su cui viviamo ha dei limiti ben precisi, che la razza umana se vuole sopravvivere deve adeguare il suo comportamento alle esigenze del pianeta, evitando modi di vivere irrazionali e stravaganti, che sono in netto contrasto con i limiti biofisici della terra…”. Se all’inizio fu detto “non uccidere ed ama il prossimo tuo come te stesso” – ammonisce Geogescu-Roegen – oggi un nuovo comandamento dovrebbe essere “ama le generazioni future come te stesso”. Una vera e propria Rivoluzione antropologica!
(Foto di Angelo Perfetti da Pixabay)
Massimo Bramante
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