
Primo Maggio: la festa interrotta
Tra diritti negati e nuove disuguaglianze, il senso di una festa che non può dirsi compiuta
[Di Antonello Rivano]

La festa interrotta
Ogni anno il Primo Maggio ci invita a fermarci. Non solo per celebrare una ricorrenza, ma per riflettere. Sul significato profondo del lavoro, su ciò che rappresenta oggi e su ciò che dovrebbe rappresentare domani. Una riflessione che oggi, più che mai, appare non solo necessaria, ma urgente.
Sì, il lavoro continua a uccidere. Ogni settimana arrivano notizie di chi non è tornato a casa, vittima di incidenti evitabili, strappato alla vita mentre cercava semplicemente di guadagnarsela. Ma sarebbe riduttivo fermarsi a questo – già gravissimo – aspetto. Il lavoro è anche ciò che manca, drammaticamente, a troppi giovani che vedono sfumare i propri sogni prima ancora di tentare di realizzarli. È quello che si trasforma in un limbo per chi ha superato i cinquant’anni, tagliato fuori dal mercato come se l’esperienza fosse un peso anziché una risorsa. È quello che logora le donne, spesso ancora relegate ai margini o costrette a scegliere, in una società miope, tra la carriera e la maternità. È quello che discrimina per l’accento, il colore della pelle, la disabilità, l’orientamento sessuale, la provenienza geografica.
Ed è, sempre più spesso, quello che pur esistendo non basta a vivere. Il lavoro povero è la nuova frontiera dell’ingiustizia: milioni di persone che lavorano a tempo pieno – o quasi – ma non riescono a pagare un affitto, a curarsi, a garantire un futuro ai propri figli. È la fatica quotidiana che non emancipa, ma intrappola. Il paradosso di un sistema che promette benessere e produce insicurezza.
Eppure il lavoro dovrebbe essere tutt’altro. Una possibilità concreta di realizzazione personale e collettiva. Un ponte verso l’autonomia e la dignità. Un luogo in cui si esercita la creatività, si costruisce valore, si intrecciano relazioni. Un diritto, non un privilegio riservato a pochi. Un patto di equità, non una condizione di sopravvivenza.
Il Primo Maggio non può ridursi a una giornata di bandiere, musica e comizi. Deve essere il giorno in cui si alza lo sguardo e si ha il coraggio di osservare le disuguaglianze, riconoscerle, denunciarle. Ma anche quello in cui si immagina – e si pretende – un modello diverso. Un’economia che non viva soltanto di flessibilità e prestazioni, ma che valorizzi la stabilità, la sicurezza, la crescita umana. Una società in cui le persone non siano misurate solo in termini di produttività, ma in termini di umanità.
Oggi più che mai abbiamo bisogno di parole coraggiose, ma anche di gesti concreti. Di politiche lungimiranti che non rincorrano l’emergenza, ma costruiscano il futuro. Di comunità solidali, che sappiano riconoscere nel lavoro non solo un mezzo di sostentamento, ma uno dei fondamenti della cittadinanza e della coesione sociale.
Perché il lavoro non sia più ciò che ci divide, ma ciò che ci unisce.
E perché il Primo Maggio torni a essere davvero una festa. Di tutti. Nessuno escluso
Antonello Rivano