Mar. Lug 8th, 2025

Storia di un Primo Maggio – 3

IL CONFINE INVISIBILE: UN PASSAGGIO TRA POVERTÀ E BENESSERE
[Di Mimmo Oliva]

Storia di un Primo Maggio

Con questa serie di tre articoli vogliamo ricordare il libro di Mimmo Oliva A me pare che il mondo resti fermo – Storia di un Primo Maggio (Polis SA Edizioni), alla seconda edizione, curata da Teo Oliva, che raccoglie i pensieri e gli appunti di Galante Oliva sul Primo Maggio a Nocera Inferiore dal 1956 al 1974, anni in cui fu protagonista attivo della storia sindacale della provincia di Salerno. Ogni rigo trascritto nel libro racconta una realtà, ormai passata ma ancora viva nei ricordi, che fa luce sulle imprese e le industrie storiche del territorio, le personalità, le problematiche e le lotte per il lavoro che hanno segnato per decenni l’Agro Nocerino Sarnese e il resto del paese.

Questo libro, con la prefazione di Mario Avagliano, rappresenta una testimonianza importante della storia del Primo Maggio nel salernitano, e probabilmente di gran parte del Sud Italia.
Con cadenza giornaiera pubblicheremo la prefazione di Avagliano, e le introduzioni di Galante Teo Oliva e Mimmo Oliva.


Il confine invisibile: un passaggio tra povertà e benessere

di Mimmo Oliva

Un titolo dell’Unità del 30 aprile 1967, a pagina 7, così recita: “Sulle forche di Chicago non fu uccisa la libertà” e nel sottotitolo lo continuava: “Quattro innocenti – colpevoli solo di lottare per i diritti dei lavoratori – andarono al patibolo. La storia mostruosa nacque quando un industriale rifiutò ostinatamente di concedere ai suoi operai la giornata di otto ore…”


Sì, è proprio così, quella dei lavoratori è stata una storia mostruosa e in molte parti del mondo lo è ancora, comprese alcune parti d’Italia. E il titolo non vi sembri pessimista, la sensazione che “a me pare che il mondo resti fermo” deve rimanere tale, una sensazione. Certo leggendo e rileggendo il racconto ma soprattutto gli scritti in originale di Galante Oliva (il nostro Paddy) si ha effettivamente l’impressione che i temi, i termini, gli slogan, la stessa situazione sociale ed economica che il nostro Paese sta attraversando faccia rimanere stupefatti. Sembra non sia cambiato nulla. Non è così, per fortuna. Non è la malinconia di Calamandrei che in un suo momento particolare scrive “…che affiora la ricerca disperata del mondo felice dell’infanzia, della continuità fra il bimbo di allora e l’uomo adulto, e lo stillicidio degli anni, e il consumarsi dei volti raggrinziti, e la provvisorietà dei mortali…”


No, non è malinconia ma certo è che adesso sembriamo tutti anestetizzati, affetti da una certa sindrome da “corpo sfiduciato” che sembra colpisca senza alcuna distinzione di censo, di colore, di luogo. Anche il richiamare l’unità tra Nord e Sud è contemporaneo al nostro sentire. Anche allora vi era il dualismo tra le due grandi aree del Paese, e come allora vi è in molti la convinzione che le fortune del Nord fossero dovute allo sfruttamento del Sud. Ricordo come i beneficiari di “aiuti pubblici” furono definiti ironicamente da Luigi Einaudi “trivellatori” considerando che questi anziché le miniere, trivellavano le casse dello Stato.


Non succede la stessa cosa oggi? Quello che mi sembra però sia grave oggi è che il Nord stia proseguendo per conto suo annettendo il Sud, non solo economicamente, ma anche politicamente e non so se tutti ne siano consapevoli. E come allora il Sud sta rispondendo con una accelerazione dell’emigrazione giovanile e con il trasformismo più becero.

Solo in un caso le due parti dell’Italia sono molto più vicine di quel che sembra. Basta guardare i consumi e se questi calano al Sud, così come sta succedendo, allora ci saranno ulteriori mutamenti in negativo. Perché questo calo dei consumi sta colpendo soprattutto la fascia di occupati con un buon reddito sicuro che adesso si è trovata accomunata alla vasta platea di popolazione già storicamente vulnerabile, che circola tra occupazione a rischio, lavoro precario, mala occupazione e disoccupazione, con la conseguente destabilizzazione dell’intera società meridionale, che dopo decenni vede erodere anche parti del ceto medio. Ed è in questo contesto che si stanno verificando i mutamenti più radicali e sconvolgenti, garantendo ancor meno chi è già debole.


E sembra strano come coloro che sapevano tutto della fabbrica, della catena di montaggio, a un certo punto si siano trovati completamente spiazzati: certamente si sono destrutturate le forme di produzione precedenti, è mutata la composizione sociale (si sta “parcellizzando” sempre più), non vi è più la cosiddetta “dimensione di classe”, ma ciò giustifica la nascita di tanti orfani? Orfani della grande fabbrica, orfani del proprio non tempo libero, orfani dei grandi numeri, delle grandi piazze piene di gente, orfani di punti di riferimento che non ci sono più, orfani di valori validi per tutti quali libertà, dignità, etica, civismo.
Soprattutto orfani del salario e troppo spesso prigionieri del sottosalario. Anche qui non diciamo quindi niente di nuovo. E per sgomberare ogni dubbio sottolineo che non mi considero un nostalgico, anzi. Noto però che vi è una ciclicità dei temi chiave che caratterizzano determinate fasi: il territorio, il ritorno nei luoghi di lavoro, la sicurezza sul lavoro, il rinnovo della classe dirigente, la sicurezza nella società, i giovani, le donne, gli anziani, la difesa della Costituzione, gli immigrati e tanti altri argomenti cool & trendy.


La differenza con il passato si limita ai modi, ai linguaggi con cui si affrontano le questioni e agli obiettivi che ogni analisi si pone. Io ritengo che ci si debba concentrare fondamentalmente su due punti. Primo: buona parte delle Istituzioni, della politica, delle organizzazioni sindacali e una parte consistente della classe imprenditoriale hanno, in un certo senso, perso il contatto con “la vita reale” delle persone (così come sono collocate oggi nella società). Quanto prima si prenderà atto di questa divaricazione meglio sarà, se vogliamo chiamiamolo pure coraggio di cambiare. Secondo: riprendere la prospettiva della costruzione del futuro per uno sviluppo differente, che guardi oltre il presente e che si basi su concetti cardine quali equità, redistribuzione e si concentri sulla costruzione di un Mondo Nuovo che imponga un differente concetto di “contemporaneità”, caratterizzato da nuovi tempi e nuovi modi, capace di tempi più rapidi nel prendere decisioni cruciali e che sia anche in grado di modificarsi continuamente, o meglio, opportunamente.


Mark Twain affermava spesso “ci sono simpatiche le persone che dicono francamente quello che pensano, a condizione che pensino lo stesso di noi”. Troppo spesso ci troviamo di fronte a persone che non concepiscono proprio che il mondo potrebbe funzionare in maniera diversa, e quindi comincia inevitabilmente lo strazio per chi sfugge a questa regola, per chi non è abituato a soggiacere al “è così che funziona…” e che quindi comincia a pensare di essere davvero “strano”.
Se si decide di fare l’eroe contro tutto e tutti, sordi e ciechi alla realtà circostante, ci si accorge che non serve, e d’altro canto ancor meno si riesce ad adeguarsi, se poi si prova a farsi scivolare tutto addosso è ancora peggio, non riuscendo ad arrendersi ad un pilatesco “allora fate quello che volete”! Alla fine si è costretti alla scelta più faticosa: cercare di rimanere integri…


Mi viene spesso in mente il pirata Long John Silver, ma non il primo, quello cinico e crudele di Stevenson bensì il secondo, quello di Larsson, isolato in una grotta sulla montagna, a resistere ai cannoneggiamenti delle navi dal mare sottostante o sovrastante (dipende dai punti di vista!) mentre pensa al senso della vita, della morte e della libertà. Long John Silver, quando si vede perduto, pur di non arrendersi decide di farsi esplodere. Ma non è giusto finire così, ci devono essere vie meno definitive per non darsi per vinto.
E allora si ritorna al solito rifugio, sognare. “C’è una linea sottile tra star fermi e subire, c’è una linea sottile tra tacere e subire, la linea sottile tra dormire e sognare”, a noi interessa quella tra sognare ed agire.
A Nocera Inferiore vi è un ponte che divideva in qualche modo la città. Attraversandolo si usciva (o si entrava) dalla parte più proletaria e povera, che era anche quella dove c’erano le fabbriche (ed il carcere, e le prostitute…) per passare nell’altra Nocera. Quella dove c’erano i negozi, il centro della città, il Municipio, le scuole, piazza Cianciullo. Quella dove abitavano quelli che stavano bene. La Nocera degli invidiati.
E c’erano quelli che a tutti i costi volevano attraversarlo, quel ponte, per sfuggire a quella che consideravano una fabbrica speciale, “la fabbrica del dolore”, come ci racconta in maniera esemplare Gabriele Sellitti in una sua poesia del 1964, “Le monache rosse”1. Dall’altra parte gli altri facevano un po’, ma solo un po’, resistenza.

Mimmo Oliva

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