Mascolinità tossica: il prezzo del silenzio
Quando il possesso diventa violenza. Il silenzio dietro la chiusura del gruppo Facebook «Mia moglie»
IN PUNTA DI PENNA
Gli editoriali del Direttore di Redazione Antonello Rivano
“L’informazione è la chiave per capire il presente, ma può diventare solo rumore se non ci fermiamo a pensare.” A.R
Per sei anni immagini intime di donne sono state condivise online senza consenso. Trentamila persone hanno guardato, commentato, approvato. E nessuno ha detto nulla. Così la violenza diventa ordinaria, invisibile, accettata. Così cresce la mascolinità tossica, silenziosa ma potente, trasformando corpi in oggetti e desideri in diritto.
Il termine “mascolinità tossica” nasce negli anni Novanta in ambito psicologico per descrivere quei comportamenti maschili che trasformano la forza in dominio e il desiderio in possesso. Modelli che diventano tossici quando fondati su violenza, controllo e negazione dell’altro.
La chiusura del gruppo Facebook «Mia moglie», con 31mila iscritti, ha riportato alla luce la normalizzazione della violenza: corpi femminili rubati, esposti, violati nel loro diritto a esistere come soggetti. Foto condivise senza consenso, commentate con ironie sessiste e battute volgari, incitamenti a spiare. Il consenso? Non contava.
Facebook ha tollerato per anni queste immagini, mentre in altri contesti si mostra inflessibile, cancellando post o profili per motivi minori. Dimostrando che la selettività delle regole non è neutra: ciò che minaccia davvero il potere, il consenso o il modello culturale dominante spesso viene cancellato, limitato ,punito, mentre ciò che è considerato “solo“ politicamente scorretto, anche se moralmente, talvolta anche penalmente, condannabile, passa innoservato attraverso la rete dei logaritmi. È un paradosso che evidenzia come la piattaforma non sia solo uno spazio neutrale di comunicazione, ma anche un arbitro di visibilità e legittimità.
Alcuni utenti iscritti al gruppo, si sono giustificati dicendo che si trattava di un “gioco”, di uno scherzo, di una leggerezza. Ma quando in ballo ci sono diritti inalienabili di altri, non può esserci alcun gioco. Non si gioca con le vite delle persone, con la loro dignità, con il diritto a sentirsi al sicuro.
Ridurre a “gioco” la violazione di corpi e privacy è un tentativo di minimizzare la gravità, di spostare la responsabilità sul contesto e sulle circostanze. In realtà, ogni immagine condivisa senza consenso, ogni commento sessista o incitamento a spiare, è violenza concreta, reale e misurabile. La leggerezza dichiarata non annulla il danno: amplifica l’idea che alcuni comportamenti siano tollerabili, quando invece dovrebbero essere immediatamente condannati.
Il confine tra il divertimento apparente e l’abuso è netto: chi lo oltrepassa sta violando la libertà e la sicurezza di un altro essere umano. E la rete, se non interviene con regole chiare e applicate in modo coerente, diventa complice di questa violenza. Non esistono scusanti, non esistono giustificazioni: il diritto delle donne, e non solo loro, a non essere ridotte a oggetti, a non essere esposte senza consenso, è assoluto.
In altre parole, comportamenti gravemente violenti possono essere ignorati perché inseriti in dinamiche sociali tollerate, mentre infrazioni minori vengono trattate con severità. Questo crea un messaggio implicito: certi abusi, certi atteggiamenti predatori, non sono percepiti come tali quando rientrano in un sistema di normalizzazione culturale. La violenza digitale, così, si intreccia con la cultura del possesso, diventando invisibile e accettata.
Come osservava Umberto Eco: «I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar. Ora hanno la stessa visibilità di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli». Ciò che prima era chiacchiere da bar, racconti tra amici, esperienze intime condivise in cerchie ristrette, esternazioni sempre condannabili e da evitare, ora ha la stessa visibilità di opinioni espresse da professionisti ed esperti. Migliaia di occhi, migliaia di approvazioni. Il privato diventa spettacolo. La violenza, normalità.
La visibilità di certi attegiamenti li rende più insidiosi, trasformandoli in modelli di comportamento apparentemente accettabili.
La donna continua a essere percepita prima come oggetto e solo raramente come soggetto, anche in contesti che non trattano esplicitamente di sessualità: commenti e immagini la riducono a corpo, ornamento, pretesto per il divertimento maschile. È la banalità del male quotidiano: risate complici, silenzi omertosi, gesti ordinari che costruiscono un clima di sopraffazione. La stessa logica si ritrova nei femminicidi, negli abusi domestici, nei processi come quello di Gisèle Pelicot. Quante comunità dello stupro convivono accanto a noi, invisibili ma presenti, tollerate dal silenzio?
Contrastare la mascolinità tossica non significa colpire individui isolati, ma smontare un intero immaginario. Significa insegnare che il consenso conta, che i corpi non sono proprietà, che la forza non è misura di valore. Ciò che oggi sembra innocuo — un commento, una foto rubata, una risata complice — è il terreno fertile delle violenze di domani.
Nessuno ha diritto sul corpo o sulla vita degli altri. Ogni volta che dimentichiamo questa verità, consegniamo un pezzo di libertà al patriarcato. Serve un impegno quotidiano, una responsabilità collettiva. Perché il prezzo del silenzio non lo pagano solo le donne violate — che già è un costo enorme — lo paghiamo tutti.
Antonello Rivano

