
Quando il tifo uccide
Non era un giocatore, né un tifoso. Era un autista. È morto “per una partita”. E questo, da solo, dovrebbe bastare a toglierci il fiato
IN PUNTA DI PENNA
Gli editoriali del Direttore di Redazione Antonello Rivano
"L’informazione è la chiave per capire il presente, ma può diventare solo rumore se non ci fermiamo a pensare." A.R
C’è sempre un momento, nella storia collettiva, in cui le parole passione sportiva smettono di avere senso.
Accade quando un autista muore — colpito da un masso mentre riporta a casa dei tifosi dopo una partita di basket, sulla superstrada tra Rieti e Terni.
Non un protagonista del campo, non uno dei cori, ma un lavoratore qualunque. È morto per una partita. E già questa frase, da sola, dovrebbe bastare a toglierci il fiato.
Non serve un nome o una maglia per indignarsi. Serve solo chiedersi che cosa abbiamo trasformato in guerra, quando lo sport dovrebbe essere casa comune, linguaggio universale, gioco.
E c’è un elemento, forse, ancora più preoccupante: questa volta non si trattava di calcio, ma di basket — e nemmeno di massima serie.
Un contesto che dovrebbe rappresentare l’altra faccia dello sport, quella più pulita, più vicina alla gente, più lontana dagli eccessi.
E invece no. Anche lì, anche a quel livello, è bastata una trasferta per trasformare la passione in odio.
Come se il virus della violenza avesse ormai contagiato tutto, scavalcando le categorie, gli sport, le differenze di tifo e di scala.
Si parte con uno sfottò, una bandiera, una curva che canta più forte. Poi arriva la rabbia: quella cieca, che si nutre di rancore e di branco. Si organizzano agguati, si lanciano pietre, si muore.
Nel frattempo, i comunicati ufficiali parlano di “episodio isolato”, di “scontro fra tifoserie”, di “indagini in corso”.
Ma qui non c’è uno scontro: c’è un assassinio.
E dietro quell’assassinio, un clima che abbiamo smesso di considerare pericoloso — che cresce negli stadi, nei palazzetti, nei social, nei bar, nei linguaggi quotidiani che trasformano lo sport in guerra.
Chi ha lanciato quella pietra non ha colpito solo un parabrezza: ha colpito l’idea stessa di sport come incontro, di passione come valore, di squadra come appartenenza positiva.
E allora, forse, dovremmo smettere di raccontarci che “lo sport unisce”, se poi un uomo muore tornando da una partita.
Perché non basta un motto per salvare un senso, serve una coscienza collettiva che torni a chiamare le cose con il loro nome: odio, violenza, follia.
Ci sono momenti in cui non si può restare neutrali. Questo è uno di quelli.
Perché se un autista muore per un tiro che non è mai partito da un campo, ma da una mano che ha scelto di odiare, allora non è solo lo sport ad aver perso:
è l’umanità intera ad aver segnato un autogol.
Antonello Rivano