Lavoro e Mezzogiorno

immagine mimmo olivaRipubblichiamo una nostra intervista del 2010 che ci sembra di grande attualità.

Lavoro, Mezzogiorno e qualche altra divagazione. Con questi argomenti inauguriamo la serie delle nostre interviste con cui tentiamo di dare un contributo per una  visione del lavoro e dell’attuale stallo che vive il nostro Paese e soprattutto una parte di esso, il Sud appunto. Iniziamo con Mimmo Oliva, sindacalista e membro del nostro comitato scientifico, intervistato dal nostro Direttore scientifico, Ubaldo Baldi.

                                                                                                                        

Partiamo da lontano. Come è possibile che coloro che sapevano tutto della fabbrica, della catena di montaggio, del rapporto fabbrica-territorio, a un certo punto si siano trovati completamente spiazzati di fronte al nuovo cambiamento?

Se ti riferisci ai lavoratori, io non penso che veramente si siano sentiti spiazzati. Io, più di un dubbio ce l’ho. Se proprio vogliamo analizzare il tutto direi di cominciare dai tempi e dagli orari. Guarda, vi è un rapporto tra tempi di vita e orari  di lavoro, e sicuramente vi è stata una trasformazione. Per comprendere bene le attuali contraddizioni dell’organizzazione del tempo e degli orari, in una società detta oggi globalizzata, dobbiamo fare riferimento a tre fasi storiche che si sono succedute nei paesi sviluppati, cercando, se ci riesco, di non appesantire il ragionamento. Quella del fordismo, del post fordismo e quella attuale.

Il fordismo con le sue esigenze tecnologiche della produzione di massa, insieme ad un sindacato forte e rappresentativo dell’operaio massa, avevano favorito una tendenza alla standardizzazione dei regimi di orario, una sincronizzazione dei ritmi di vita e quindi dell’intero corso della vita.

I servizi adottavano orari standard di apertura al pubblico, che ricalcavano gli orari di ufficio e di fabbrica, praticamente non si teneva conto delle esigenze del consumatore utente. Gli individui erano costretti a collocare le stesse attività negli stessi periodi dell’anno. Quindi congestione, code, ritardi, perdite di tempo erano il risultato della tendenza alla sincronizzazione delle attività. Questo cominciava a creare disagi alle figure emergenti, anche se ancora marginali, come le donne e gli anziani. Le prime subivano la doppia presenza, lavoro e casa. I secondi, avevano conquistato il tempo libero e lo riscoprivano vuoto. Una società sincronizzata e rigida faceva emergere esigenze di sincronizzazione e di flessibilità.

Il post-fordismo poi, nell’industria ristrutturata, con i suoi ritmi di lavoro imposti dalle richieste immediate del mercato. E la capacità di offrire la prestazione o di garantire la consegna in minor tempo diventa un fattore importantissimo di competizione sul mercato. Nei servizi alle persone emerge sempre più la necessità di offrire prestazioni al di fuori degli orari standard. La carenza di tempo che a vari livelli produce code e attese, l’allargamento delle metropoli e il conseguente aumento della mobilità urbana, impongono la desincronizzazione di molte attività. La sempre più vasta disponibilità di servizi a qualsiasi ora del giorno e della notte è assicurata da invenzioni tecnologiche (vedi cellulari ed internet).

Succede quindi che dal punto di vista dell’organizzazione dei tempi e degli orari, le richieste del consumatore entrano subito in contraddizione con l’organizzazione precedente: si richiedono orari più lunghi (commercio e servizi), l’apertura dei centri commerciali durante i weekend, orari più confacenti alle esigenze di una città “sempre attiva” e quindi chi non si adegua viene abbandonato.

 La globalizzazione, questo termine ormai prepotentemente entrato nel nostro lessico quotidiano, che definizione ne dai?

Per gli economisti la globalizzazione è essenzialmente “il processo di progressiva integrazione dei mercati mondiali basato sulla liberalizzazione degli scambi tra paesi”, tanto da far sembrare nuovo un processo dalle radici profonde come l’emergere delle economie asiatiche.

Nasce allora lo stress da globalizzazione per una parte degli imprenditori e alcuni grandi gruppi fordisti i quali non ne riescono a reggere l’urto.

Si destrutturano quindi le forme produttive precedenti e muta anche la composizione sociale, praticamente le persone non si riconoscono più in ciò che gli era abituale. In primo luogo perché probabilmente si è guardato poco ai grandi cambiamenti che stavano accadendo (e continuano ad accadere) “in basso” mentre si è guardato in alto sempre più, lì dove è successo poco. In secondo luogo l’attaccamento a “una dimensione di classe” è stata definitivamente  sopravanzata da quelle dell’individuo e della comunità.

Tutto ciò ha prodotto essenzialmente tre cose: la paura operaia, i padroncini che sono andati in crisi, quelli che vivevano e vivono nel cuore delle aree urbane, solo che nelle periferie o nei piccoli paesi quella dimensione venuta meno ha portato una sorta di ipermodernità non sempre accolta nel modo giusto.

 Allora di tutto questo ce se ne occupò abbastanza? Ci si accorse della rivoluzione in corso?

Onestamente penso di no. O almeno ci si accorse in parte di ciò che stava accadendo. Si era probabilmente distratti da un meccanismo di autoreferenzialità e distratti da battaglie di vertice.  Per questo ritengo essenziale il ritorno al territorio, fatto di cruda terra ma anche di carne viva, di luoghi, di istituzioni e tanto altro. E qui nascerà il “glocalismo”, quella sorta di capitalismo di territorio.

E quella che una volta veniva chiamata “classe operaia”?

Qualcuno ha nostalgia della classe operaia e dei grandi numeri. I primi ci sono ancora e non sono scomparsi,  è che non sono più concentrati in un unico luogo, se continuiamo a pensare ancora ad un sistema fordista. I grandi numeri invece sono scomparsi proprio per questo.

Cosa fare quindi per competere in questo nuovo mercato del lavoro? Cosa dobbiamo mettere al centro della discussione?  

Sicuramente per essere competitivi si ha bisogno di beni territoriali e cioè autostrade,  porti, aeroporti, università, spazi di discussione e non dico niente di nuovo.

In una parola: modernizzazione.

Secondo grande dato che ci balza prepotentemente addosso: il bisogno di forza lavoro che non pone problemi dentro le mura dell’impresa, l’immigrato. Infatti nell’impresa non pone problemi e non ne può porre, i problemi sono tutti fuori.

Diventa allora strategico avere una visione della società con “l’altro”.

Vedi, ci sono infatti dei grandi flussi che sono entrati nei luoghi (tutti quanti), li hanno disarticolati e cambiati, dal punto di vista produttivo, della composizione sociale, ma soprattutto dal punto di vista culturale.

Sono i flussi dell’immigrazione, della finanza, di internet, delle diversità tutte. Pensiamo a quanto queste cose hanno cambiato il nostro modo di vivere.

E qui ritorno ai luoghi, al territorio. E il resto in mezzo, tra i flussi e i luoghi, accompagnando i luoghi nei flussi e contaminarli. Lo sforzo deve essere essenzialmente quello di evitare a tutti i costi il conflitto tra le due cose. La domanda se ci si riesce o meno non me la porrei, è un processo inevitabile.

 Come è cambiato, alla luce di quanto sta avvenendo, il rapporto tra Nord e Sud?

Tanto tempo fa i beneficiari di “aiuti pubblici” furono definiti ironicamente da Luigi Einaudi “trivellatori” considerando che questi anziché trivellare le miniere, trivellavano le casse dello Stato. Non succede la stessa cosa oggi?

Quello che mi sembra però sia grave oggi è che il Nord stia proseguendo per conto suo annettendo il Sud anche politicamente e non so se tutti ne siano consapevoli. E come allora il Sud sta rispondendo con una accelerazione dell’emigrazione giovanile (e non solo) e con il trasformismo più becero. Solo in un caso le due parti dell’Italia sono molto più vicine di quel che sembra. Basta guardare i consumi e se calano questi al Sud, così come sta succedendo, allora ci saranno ulteriori mutamenti in negativo.

Sarebbe interessante capire chi nel Mezzogiorno sia stato più colpito da questi mutamenti. Un’idea sicuramente l’avrai elaborata.

Guarda non è semplice. E’ certo che la più colpita sia stata quella fascia ristretta di occupati con buon reddito sicuro che adesso si è trovata insieme a tutta quella vasta platea di popolazione  vulnerabile che circola tra occupazione a rischio, lavoro precario, mala occupazione e disoccupazione che comporta una destabilizzazione della società meridionale perché dopo decenni sta intaccando i ceti medi. Ed è qui che stanno avvenendo i mutamenti più radicali e sconvolgenti ed è questo che comincerà a garantire ancora meno chi è già debole. Mi domando cosa accadrà quando il circuito della solidarietà familiare comincerà a spezzarsi per motivi fisiologici.

 Quindi?

Quindi abbiamo tanti orfani che ormai ci circondano: quelli della grande fabbrica, del proprio tempo libero, orfani dei grandi numeri, delle grandi piazze piene di gente, orfani di punti di riferimento che non ci sono più, orfani di valori validi per tutti quali libertà, dignità, etica, civismo. Anche qui non dico niente di nuovo e per sgomberare ogni dubbio sottolineo che non mi considero un nostalgico, anzi. Ritengo invece che si debbano affrontare le questioni fondamentalmente in due punti. Uno: le Istituzioni, la politica e un sindacalismo che potrei definire partecipato devono in un certo qual modo seguire la vita reale delle persone e prima si prenderà atto di questa divaricazione meglio sarà. Due: riprendere la prospettiva della costruzione del futuro per un diverso sviluppo che non guardi solo al presente con concetti quali l’equità, la redistribuzione etc ma si concentri sulla costruzione di un mondo nuovo mettendo in campo e imponendo un nuovo concetto di contemporaneità, con nuovi tempi e nuovi modi, che modifichi i tempi delle decisioni e che sappia anche modificarsi continuamente.

 E i giovani?

Ti faccio un esempio. Un giovane di qualsiasi paese europeo che a 25 anni è ancora in famiglia, si sente a disagio, culturalmente a disagio. In Italia no. Un giovane italiano, uscendo dalla famiglia, non acquista particolare libertà, anzi, acquisisce dei vincoli, deve assumersi compiti, obblighi, responsabilità,  soprattutto quei ragazzi meridionali, in questo momento i più vivaci e intraprendenti, che salgono al Nord. Quei ragazzi che sono e diventeranno la classe dirigente di un Nord che provvede ad immettere i propri giovani nel mercato del lavoro prima possibile.

Guardando poi le grandi aree metropolitane meridionali, si vede che la situazione è peggiorata da tutti i punti di vista: droga, vandalismo, delinquenza organizzata e disorganizzata, sottoccupazione, violenza varia, disgregazione familiare, sottocultura e trasformismo. Quello che sarebbe interessante conoscere, nel caso si formino gli anticorpi, è in che proporzioni la nostra società, questa società, è civile o incivile.

Forse sarebbe anche ora di smettere di pensare ad una sorta di  falso nuovismo e ricercare invece nuove forme e nuovi approcci alle problematiche che ci accerchiano, siamo tutti immersi in una immensa palude.

Sono molto fiducioso però perché vedo un grande vento nuovo che sta venendo avanti ed essenziale per la crescita di questi è quella generazione che in qualche modo è passata inosservata, quella tra i quaranta e i cinquant’anni.

 E in tutto questo i lavoratori?

 I lavoratori, ne sono convinto, sono in parte più avanti di quello che immaginiamo. Forse inconsapevolmente hanno percepito e hanno distinto prima di altri il luogo di lavoro dalla società esterna  e noi continuiamo a chiederci perché. Forse dobbiamo guardare ai lavoratori non più secondo l’ottica della classe sociale “accertata” e di certezze ben definite, capendo che quello che è successo dal punto di vista dell’evoluzione dei consumi e della mentalità ha buttato all’aria tutto. Accettando di essere ormai immersi in una società che non prevede più i né. La nostra è una società “multi” e basta. Siamo tutti diversi.

 Facci un esempio

Guardiamo ad esempio il lavoro precario. Oggi quasi tutti pensano che questo sia il mondo moderno, e non ci sia nulla da fare. Non è così. E’ che così come è inteso oggi, è l’antitesi della libertà.  Pensate a quante volte al giorno usiamo le parole precario, atipico, flessibile, giovane e io aggiungo solitario e con l’impossibilità di immaginarsi il futuro, uno che guadagna poco, è stressato ed è pure ansioso.
Pensiamo a quanto l’irruzione della discontinuità, della flessibilità, in altre parole la varietà, la confusione e l’insicurezza delle forme lavorative, soprattutto al Sud, presuppongono togliere energie a tutti quei lavoratori e cittadini che vogliono impegnarsi in altre cose, avere altri interessi che non siano solo la ricerca del lavoro e dello sbarcare il lunario.
Diverso sarebbe invece se questo riuscisse a trasformare la nuova precarietà delle forme di occupazione in un diritto alla scelta del proprio tempo di lavoro, regolata all’interno delle condizioni contrattuali di base: immaginate se questo servisse a conciliare lavoro, vita e interessi sociali e pure ozio direi.  Tra le tante belle cose che scriveva Bobbio una in particolare mi ha colpito, egli affermava “…l’uomo non nasce libero se non nelle astrazioni degli illuministi: l’uomo diventa libero in un ambiente sociale in cui condizioni economiche, politiche, culturali siano tali da condurlo, anche suo malgrado, ad acquisire coscienza del suo valore di uomo”.

 

28.04.2010