Gio. Apr 18th, 2024

Breve storia dell’internamento militare italiano in Germania. Dati, fatti e considerazioni (1943-1945)

“Ciascun individuo venne trasformato in un mero numero: il numero di matricola, inciso su di una piastrina di riconoscimento accanto alla sigla del campo”

di Mario Avagliano e Marco Palmieri

L’8 settembre 1943 è una data che segna come poche altre la storia italiana. L’annuncio dell’armistizio avrebbe dovuto portare l’Italia fuori dalla guerra, voluta e condotta dal regime fascista al fianco della Germania nazista, ma in realtà, anche a causa della dilettantesca gestione ad
opera dei vertici istituzionali e militari, precipitò il Paese nella feroce occupazione militare tedesca, nel lungo e durissimo confronto tra eserciti stranieri lungo la penisola e nella cruenta guerra fratricida tra italiani che si configurò a tutti gli effetti come una “guerra civile”. Ma fu anche l’inizio della Resistenza e della Guerra di Liberazione, cioè di quel riscatto nazionale grazie al quale nel dopoguerra l’Italia poté prendere legittimamente posto tra le nazioni democratiche vincitrici sul nazifascismo.

Al riscatto italiano, oltre che la Resistenza, contribuirono anche altre
vicende, come la creazione di un esercito regolare denominato Corpo Italiano di Liberazione (CIL), schierato in prima linea al fianco degli angloamericani impegnati a risalire la penisola, e la partecipazione di tanti militari italiani nelle formazioni partigiane all’estero, in Grecia, Albania e
Jugoslavia. Un’altra pagina di questa storia – quasi completamente rimossa e dimenticata nel dopoguerra, sia in sede di memoria collettiva che in sede di ricostruzione e analisi storiografica – fu quella dei 650.000 Internati Militari Italiani (IMI), che dopo l’armistizio rifiutarono di continuare a combattere la guerra al fianco dei tedeschi e non accettarono di arruolarsi nell’esercito del redivivo fascismo della Repubblica Sociale Italiana, andando volontariamente incontro a circa venti mesi di internamento e lavoro coatto nei lager nazisti

Le premesse della tragedia


La vicenda storica degli IMI ebbe ufficialmente inizio, appunto, l’8 settembre 1943. Essa però trovò i suoi presupposti negli avvenimenti precedenti e, in particolare, da un lato in una guerra condotta al di sopra di ogni reale possibilità da parte del regime fascista, dall’altro nell’esaurirsi della parabola del consenso al regime stesso da parte degli italiani, in special modo di quelli più giovani che sotto di esso erano nati, cresciuti e con i suoi dogmi erano stati educati.

Per questi motivi, quando Mussolini fu messo in minoranza dal Gran Consiglio del Fascismo e il re lo fece arrestare, il 25 luglio 1943, la notizia fu accolta dagli italiani con doppia gioia, per la fine della dittatura e per la
convinzione che ciò volesse dire l’imminente uscita del Paese dalla guerra.

Esultanza popolare alla notizia dell’arresto di Mussolini


Tra la caduta di Mussolini e l’annuncio dell’armistizio, però, trascorsero quarantacinque giorni di caos, confusione, incertezza e gioco delle parti. Mentre il nuovo capo del governo Pietro Badoglio trattava segretamente l’armistizio con gli Alleati, infatti, i tedeschi avviarono di fatto l’occupazione
militare dell’Italia centro-settentrionale e la presa di controllo delle principali posizioni strategiche nelle zone d’occupazione all’estero. Subito dopo la caduta di Mussolini, Hitler fece affluire otto divisioni nell’Italia centrosettentrionale e inviò rinforzi alle otto già schierate a sud di Roma; il 26 luglio, inoltre, firmò la direttiva che sanciva il passaggio delle forze d’occupazione italiane dell’Egeo sotto il comando tedesco e l’integrazione con contingenti della Wehrmacht di tutte le unità italiane schierate a controllo di posizioni strategiche cruciali. Il 1° agosto venne approvato il piano segreto per far fronte all’eventuale uscita italiana dalla guerra, denominato Achse, che prevedeva di abbandonare le regioni meridionali della penisola e concentrare la resistenza all’avanzata alleata lungo gli Appennini, nonché di disarmare e catturare rapidamente le forze
armate dell’ex alleato, in patria e all’estero, per impiegare il maggior numero possibile di prigionieri come forza lavoro.

Le premesse per l’internamento di centinaia di migliaia di militari italiani nei lager nazisti e per il loro sfruttamento coatto erano state così gettate.

Il disarmo e la deportazione


Non appena gli alleati annunciarono, a sorpresa, l’armistizio italiano i tedeschi misero in atto il loro piano. Nel giro di una settimana disarmarono il grosso delle forze armate dell’ex-alleato e in poco
meno di un mese deportano quasi tutti i militari catturati nei campi di concentramento e di lavoro del Terzo Reich, a migliaia di chilometri dai luoghi di disarmo nella penisola, nella Francia meridionale, nei Balcani, in Grecia e sulle isole del Mediterraneo. Ciò fu possibile, sia perché le
unità italiane e i loro comandi erano stati lasciati senza direttive sul da farsi in seguito alla fuga da Roma del re, del governo e dei vertici militari, sia perché la prima reazione della truppa e degli ufficiali sul campo alla notizia fu di felicità, per l’erronea convinzione che l’accordo volesse dire la
fine di una guerra disastrosa, disorganizzata, subalterna a quella dei tedeschi e soprattutto poco compresa.

Gli ufficiali e i soldati si divisero per lo più in due gruppi: da un lato quelli intenzionati a resistere ai tedeschi, interpretando in questo senso il vago ordine di Badoglio di reagire agli attacchi da “qualsiasi altra provenienza”, dall’altro, i più, propensi a cedere armi e posizioni agli ex alleati per farla finita con una guerra di cui non ne potevano più. Quasi sempre queste discussioni si conclusero con la resa, anche per la guerra psicologica attuata dai tedeschi, che spinsero gli italiani a credere nella possibilità di un pacifico ritorno a casa in cambio della consegna delle armi.


In pochi giorni i tedeschi disarmarono e catturarono 1.007.000 militari italiani, su un totale approssimativo di circa 2.000.000 effettivamente sotto le armi. Di questi, 196.000 scamparono alla deportazione dandosi alla fuga o grazie agli accordi presi al momento della capitolazione di Roma.
Dei rimanenti 810.000 circa (di cui 58.000 catturati in Francia, 321.000 in Italia e 430.000 nei Balcani), oltre 13.000 persero la vita durante il brutale trasporto dalle isole greche alla terraferma e 94.000, tra cui la quasi totalità delle Camicie Nere della MVSN, decisero immediatamente di
accettare l’offerta di passare con i tedeschi. Al netto delle vittime, dei fuggiaschi e degli aderenti della prima ora, nei campi di concentramento del Terzo Reich vennero dunque deportati circa 710.000 militari italiani con lo status di IMI e 20.000 con quello di prigionieri di guerra. Entro la
primavera del 1944, altri 103.000 si dichiararono disponibili a prestare servizio per la Germania o la RSI, come combattenti o come ausiliari lavoratori. In totale, quindi, tra i 600.000 e i 650.000
militari rifiutarono di continuare la guerra al fianco dei tedeschi e furono rinchiusi in numerosi campi di prigionia in Germania e nei territori occupati: Stammlager (Stalag) e loro dipendenze (Arbeitskommando, AK) per i soldati e i sottufficiali avviati al lavoro coatto; Offizierslager (Oflag)
per gli ufficiali; campi di punizione (Straflager), di rieducazione al lavoro (AEL) o dipendenze dei campi di sterminio (KZ, Konzentrationszone) per i militari accusati di sabotaggio e presunti altri reati.

Il viaggio verso i lager e lo status di internati


Dopo la cattura, il viaggio verso i lager avvenne in condizioni disumane e durò anche più di due settimane. Gli uomini vennero ammassati sulle lunghe tradotte composte da carri bestiame chiusi dall’esterno. Le tradotte partite dall’Italia seguirono generalmente la via del Brennero o di Tarvisio e
fecero tappa a Innsbruck, mentre quelle provenienti dalla Grecia e dall’Albania sostarono a Belgrado, dove si unirono ai treni partiti dalla Jugoslavia. Gli ufficiali vennero inizialmente concentrati al confine con l’Olanda, a Meppen, e poi in Polonia, mentre sottufficiali e soldati
vennero disseminati in tutto il Reich per lavorare. Il viaggio in tradotta fu funestato dalla fame (secondo un’indagine a campione, solo il 23% dei soldati ricevette una razione alimentare quotidiana, mentre circa il 35% la ricevette ogni due o tre-quattro giorni, il 9% ogni cinque, l’8,5%
ancora più saltuariamente e il 24% mai)10 e dagli episodi di violenza, spesso dettati dal desiderio di vendetta verso i traditori. Come hanno rilevato gli storici tedeschi Gerhard Schreiber e Gabriele Hammermann nelle loro fondamentali opere sugli IMI, infatti, vi fu una particolare efferatezza dei soldati germanici nei confronti degli ex alleati e molti degli ordini emanati da Hitler e dai vertici della Wehrmacht ebbero un vero e proprio carattere criminale. Lo stesso status di IMI, mai utilizzato prima di allora, fu adottato su decisione di Hitler il 20 settembre 1943 e fu un crudele
stratagemma per sottrarre gli italiani alla tutela della Convenzione di Ginevra del 1929 valida per i “prigionieri di guerra” e per costringerli al lavoro manuale.

La vita e la morte nei lager


L’esperienza degli IMI nei campi di concentramento nazisti fu più simile a quella dei deportati o dei lavoratori coatti che a quella degli altri prigionieri di guerra, per l’intensità e le modalità della persecuzione. La vicenda umana degli ufficiali e dei soldati fu in parte diversa. Gli ufficiali furono
bersagliati dalla propaganda della RSI e furono fiaccati da mesi di fame e di stenti nei lager, mentre una parte di loro dal gennaio del 1945 fu costretta al forzoso passaggio allo status di lavoratori civili. I soldati e i sottufficiali, invece, ricevettero di massima una sola volta la richiesta di adesione
e in seguito al loro rifiuto in massa vennero avviati al lavoro coatto, che proseguì anche dopo la trasformazione in “lavoratori civili” formalmente liberi, in seguito all’accordo Hitler-Mussolini dell’estate del 1944.


Anche il primo impatto degli IMI con il sistema concentrazionario nazista fu più simile a quello dei deportati che a quello dei prigionieri delle altre nazioni in guerra contro la Germania, e fu caratterizzato dalla spersonalizzazione, cioè da una serie di pratiche burocratiche in seguito alle quali ciascun individuo venne trasformato in un mero numero: il numero di matricola, inciso su di una piastrina di riconoscimento accanto alla sigla del campo. Tra le formalità d’ingresso c’erano anche la fotografia, l’annotazione dei dati personali in duplice copia su appositi documenti di
riconoscimento e la perquisizione personale e del bagaglio, durante la quale gli IMI venivano sistematicamente spogliati di tutto; infine erano sottoposti al bagno e alla disinfezione personale e degli abiti, prima di essere assegnati alle baracche. All’interno dei lager i reclusi conducevano una vita spaventosa a causa della fame, del freddo, dell’assenza di assistenza sanitaria, delle pessime condizioni igieniche e dell’abbrutimento fisico e
morale derivante dalla prigionia. Particolarmente duro era il momento dell’appello, di norma due volte al giorno, spesso senza esonero per gli ammalati. In molti casi la sopravvivenza era legata all’arrivo dei pacchi alimentari da casa, al mercato nero e alla solidarietà dei compagni. Frequenti e cruente erano anche le perquisizioni, spesso in cerca di altri oggetti di qualche valore di cui depredare gli internati o delle radio clandestine.


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La vita degli internati non fu solo disgrazia e miseria, ma anche strenua lotta per resistere alla sopraffazione fisica, psicologica e morale. Un ruolo importante, per molti, lo giocò la fede religiosa, grazie anche all’opera incessante dei circa 250 cappellani militari internati13. Altra componente
della resistenza – specie nei lager degli ufficiali – furono le numerose iniziative culturali e ricreative che fiorirono, anche grazie alla presenza di alcune tra le migliori menti dell’intellighenzia e delle arti del tempo o del dopoguerra, che tennero conferenze e lezioni ed animarono le discussioni e i dibattiti politico-ideologici. «Così – scrive Alessandro Natta – nacque un po’ dovunque l’impegno della riscoperta e della riaffermazione dei valori risorgimentali, della conoscenza della realtà economica e sociale del nostro Paese, del contatto e del dibattito sul pensiero politico dell’Europa
moderna, in modo da mutare in giudizio critico la ribellione sentimentale contro il fascismo e in meditato fatto politico il nostro no»14. In questo clima – osserva Claudio Sommaruga – «noi uomini, allevati alla scuola fascista e digiuni di democrazia scoprimmo e maturammo la nostra
contestazione ideologica»

Il lavoro e le punizioni


Per i militari avviati al lavoro coatto la vita ruotava prevalentemente intorno ai ritmi e alle esigenze del lavoro stesso: la sveglia era prima dell’amba e, dopo l’appello, le colonne dei prigionieri
venivano costrette a diversi chilometri a piedi per raggiungere i luoghi di impiego (a sera facevano lo stesso percorso a ritroso). L’orario di lavoro si aggirava sulle 12 ore al giorno per 6 giorni la settimana, contro le 9 ore dei tedeschi; ma in caso di punizioni o esigenze particolari si arrivava
anche a 18 ore per 7 giorni. Oltre al lavoro in fabbrica, in miniera o nei campi, non di rado gli IMI venivano impiegati anche nello sgombero delle macerie e nella sepoltura dei cadaveri dopo i bombardamenti. Essi inoltre erano sottoposti a continue violenze ed erano costretti a lavorare anche
in caso di malattia. Questa situazione non cambiò neanche dopo la trasformazione dei soldati e dei sottufficiali in “lavoratori civili” formalmente liberi.

Anatomia di una Resistenza

Per effetto di questa situazione circa 50.000 militari italiani trovarono la morte sotto i nazisti, né mancarono feroci eccidi e stragi, specie nelle ultime settimane di guerra. Ma cosa spinse circa 650.000 militari ad andare incontro consapevolmente a tutto questo, rifiutando l’offerta di libertà
legata all’obbligo di indossare la divisa tedesca o della repubblica fascista? Le motivazioni furono varie. In molti casi esse non risposero inizialmente ad una scelta politica antifascista, ma piuttosto alla stanchezza della guerra, alla sfiducia, alla paura, ai tradizionali sentimenti antitedeschi o alla
convinzione che il conflitto sarebbe presto finito con la vittoria degli angloamericani. Tuttavia, soprattutto tra gli ufficiali, non mancarono motivazioni ideali, come la fedeltà al giuramento al re e la ripulsa nei confronti del fascismo considerato responsabile di quella situazione.
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Il dramma degli IMI fu anche psicologico, perché era difficile resistere alle sirene dell’arruolamento in quelle condizioni caratterizzate dalla fame, dalle violenze e dal disprezzo della popolazione civile
che li additava come “traditori” e “porci badogliani”. Il “no” all’adesione, inoltre, non fu una scelta facile, anche perché fu pronunciato da una generazione di italiani che per venti anni era stata educata al “credere, obbedire e combattere” e inquadrata nelle formazioni fasciste fin da bambini. Inquesto clima avvelenato i propagandisti tedeschi e della RSI proponevano continuamente di aderire, in particolare agli ufficiali, per riconquistare la libertà e poter tornare in Patria alle proprie famiglie.
In realtà la loro adesione era necessaria sia per ricostituire l’esercito della RSI, sia per ridare un qualche prestigio agli occhi dell’opinione pubblica italiana alla causa nazi-fascista. A posteriori,
quindi, non si può non riconoscere il rilievo di autentica Resistenza che quella scelta di massa assunse, fornendo un contributo concreto al crollo del nazifascismo e al successo della guerra di liberazione italiana ed europea sul piano militare, politico e culturale.

Mario Avagliano e Marco Palmieri


Il saggio in PDF su http://www.istitutogalanteoliva.it/wp-content/uploads/2013/09/brevestoriadellinternamentomilitare.pdf


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