Massimo Venturiello e il suo racconto intimo denso di arte
Massimo Venturiello, celebre ed apprezzato attore di cinema, teatro e televisione nonché eminente doppiatore, superati i sessant’anni, si racconta in un volume da poco pubblicato dal titolo “La sartoria di Addis Abeba”
Di Stefano Pignataro
Un racconto intimo, che tocca le corde della sensibilità e che pone l’accento su tutti quei valori e quelle diverse esperienze che una profonda introspezione po’ giungere a rilevare soffermandosi nella quotidiana confusione di una vita quotidiana attiva. Massimo Venturiello, celebre ed apprezzato attore di cinema, teatro e televisione nonché eminente doppiatore, superati i sessant’anni, si racconta in un volume da poco pubblicato dal titolo “La sartoria di Addis Abeba” (Ensemble, editing e pubblicazione a cura di Rosanna Romano , agenzia di servizi editoriali “Il Menabò) in cui a prevalere è una narrazione agile, fluida, intensa ed incalzante dove l’arte si accompagna con il vissuto.
Il volume è stato presentato giovedì 16 novembre presso la Libreria Imagine’s book. A discutere l’autore sarà il giornalista Mariano Ragusa con letture di passi scelti a cura dell’attore Alessandro Musto.
–Maestro, parlare di sè attraverso la scrittura è sempre impresa ardua. Con che metodo critico, dopo multiforme e continua esperienza nella settima arte, ha affrontato la stesura del suo primo romanzo?
Non ho seguito alcun metodo, ho semplicemente seguito un istinto molti affascinante di raccontare ciò che sentivo dentro di me e tramutarlo in scrittura. Nel corso della mia vita ho sempre concepito la vita come arte e questa esperienza di tramutare i miei pensieri in forma scritta è stata una prova interessante e catartica di sperimentazione di un’altra forma d’arte quale è la scrittura. Giunti ad un determinato momento della propria esistenza è stimolante e piacevole confrontarsi con i propri pensieri, le proprie sensazioni e misurarsi con i diversi stati d’animo con i mille pensieri contradditori che si nascondono dietro una nostra azione. Ciò che ne scaturisce è uno stile (parola che non amo) ed un modo di essere. Cimentandomi nella scrittura ne ho scoperto il piacere tanto da essermi già cimentato nella scrittura del mio secondo titolo.
–A proposito della scrittura personale, lo scrittore Claudio Magris parla di “futuri abortiti”, quelle vicende della vita che potevano avere destino divergente per una scelta non radicale. Lei ne ha mai conosciuti?
Sicuramente ognuno di noi, nel corso della propria esistenza, viene messo di fronte a scelte, a prese di posizioni che portano ad una direzione anziché altra ma sono convinto che anche questa nostra condizione di fragilità faccia parte dell’essere umano e della vita. Una componente lieta del nostro cammino, a mio parere, dovrebbe essere la leggerezza, intesa non come superficialità e noncuranza, ma concepita calvinianamente. La fragilità della vita aiuta a comprendere e a guardare tutto ad una certa distanza.
–In tutto il romanzo Lei non fa alcun riferimento ai molteplici lavori che l’hanno vista protagonista., ma a prevalere è il racconto e l’uomo..
Certamente. Non avevo minimamente intenzione di scrivere un racconto autoreferenziale. Quello che mi interessava e sentivo dentro di me era far prendere forma ad una narrazione che partiva da lontano, dalle mie origini, da quella sartoria in terra africana in cui mio padre sperava di costruire il porto sicuro dove far approdare quella ragazza (mia madre) che lo attendeva in un paese del Cilento, la mia Roccadaspide. Tanti sono i fili conduttori del romanzo, l’amore certamente ne è uno considerevole. L’amore per la mia famiglia, per i figli, per il mio lavoro.
–Si racconta anche il ragazzo che si vede passare avanti i grandi eventi della storia..
Appartengo alla generazione chiamata dei “baby boomers”, quelli nati il decennio successivo alla fine del secondo conflitto mondiale. Io, e tanti miei coetanei, abbiamo avuto vissuto un contesto storico costellato di eventi che hanno forgiato la storia e molte volte, data la nostra giovane età, non ce ne siamo neanche accorti. Come dimenticare, tra i tanti episodi, quando assistetti con mio padre, ad 8 anni, al concerto dei Beatles a Roma al cinema Adriano… Passati gli anni, rivivi quei momenti con una consapevolezza diversa..
–E il teatro è vita?
E’ vita, è passione, è carnalità. Il Teatro non ammette tradimenti. E non esiste teatro senza palcoscenico, senza pubblico, senza sudore. La tragedia del Coronavirus , su questo, ce lo ha dimostrato.
–Secondo Lei, la tragedia del Covid cosa ha fatto emergere di negativo e di positivo dell’essere umano? Nel libro vi è una parte molto nutrita in cui Lei formula diverse osservazioni e riflessioni sulla Pandemia..
Abbiamo vissuto e continuiamo a vivere un periodo orrendo, luttuoso, che ci ha mutati e scossi profondamente. Senza dubbio in questi quasi due anni di Pandemia abbiamo assistito a tantissimi meravigliosi gesti di solidarietà ma anche a tante azioni vili di gente che si è arricchita approfittando della situazione. Ora che ci stiamo, gradualmente, riaffacciando alla normalità ed ora che anche la vita culturale sta ricominciando ad abbracciare le nostre vite, noto un nutrito e costante desiderio di cultura. Ma c’è qualcosa di più profondo; si è automaticamente portati a compiere una sorta di scelta, tra ciò che ci soddisfa, ci incanta e ci delizia e ciò che ci annoia o che ci lascia, alla fine, indifferente.
Stefano Pignataro
Vicecoordinatore Nazionale di redazione/Coordinatore Sud Italia e Sicilia
Articolo tratto da “La Città”