Una, dieci, cento povertà
La povertà, nelle sue molteplici dimensioni, è un fenomeno che va oltre la mancanza di denaro, richiedendo azioni mirate e consapevoli per sradicarne le cause profonde.
Di Massimo Bramante
La povertà (assoluta o relativa che sia) non è solo mancanza di denaro. È un concetto e una realtà multidimensionale. Certo, si può essere poveri di reddito (un “flusso”, secondo la terminologia degli economisti) e/o poveri di patrimonio (“uno stock”): è la povertà economica tradizionalmente intesa. Ma si può essere, talvolta nel contempo, talaltra no, poveri di istruzione adeguata per condurre una vita dignitosa (povertà educativa), poveri di un’abitazione in cui vivere serenamente con la propria famiglia (povertà abitativa), poveri della possibilità reale di salire sull’ascensore sociale, nelle società in cui esiste e funziona (è la povertà di capacità ed opportunità di crescita, sia individuale che collettiva, così acutamente indicata dal Nobel per l’economia Amartya Sen).
Si può essere poveri di relazioni, una delle più drammatiche povertà odierne (la povertà di molti anziani e di troppi giovanissimi pur dotati di smartphone di ultima generazione). Esiste anche una povertà energetica: accreditati studi accademici ci informano che in Europa circa 41 milioni di persone non hanno accesso ai servizi energetici indispensabili per vivere o sopravvivere. E una povertà climatica – forse non ancora sufficientemente indagata. Nascere a Milano o nella costa amalfitana non è come nascere in un villaggio di una regione subsahariana, nell’India dei monsoni o ad Haiti.
In proposito, si può essere ricchi oggi e in miseria assoluta domani, non solo perché oggi si lavora e domani, spesso senza alcun preavviso, si perde il lavoro, o perché ieri si era felicemente sposati e domani divorziati. Oppure – come si legge in un istruttivo saggio del Centro Studi UILCA presentato recentemente a un convegno genovese sul possibile contrasto alle nuove povertà – perché è piovuto tanto, veramente e inaspettatamente tanto, e la mia famiglia ha perso tutto: la piccola impresa che gestiva, il campo che coltivava, l’abitazione ancora gravata da mutuo.
Si può essere poveri perché si è giovani, onesti, capaci, laureati, informatizzati, ma non si trova lavoro. E si può essere poveri perché il lavoro lo si è trovato, ma è scarsamente, troppo scarsamente, retribuito (working poor).
La povertà è un concetto ed una realtà multidimensionale, che non è sempre facile da mettere pienamente a fuoco. Esiste, infatti, anche una sorta di povertà scelta, voluta e sposata con tutto il proprio essere e come tale rispettabilissima. Vedasi i saggi di studiosi quali Rocco Altieri (La scelta della povertà volontaria per ripensare l’economia e gli stili di vita), Ivan Illich (Il messaggio della capanna di Bapu), o del teologo francescano Laurent Boisvert (La povertà religiosa). Sono testi bellissimi, come bellissimo è il libro del seguace del Dalai Lama Matthieu Ricard, Il gusto di essere felici.
Vi è poi una povertà che solo i poveri, solo loro, sono in grado di comunicare a chi povero non è e non è mai stato. Esther Duflo e Abhijit Banerjee, Nobel 2019 per l’Economia, ne parlano nel loro testo L’economia dei poveri, assai utile per capire la vera natura della povertà.
È proprio vero – a segnalarcelo gli economisti Flavio Delbono e Diego Lanzi nel saggio Povertà, di che cosa? – che non solo la povertà è un concetto multidimensionale, perché sempre “riferita ad una molteplicità di dimensioni di vita ritenute importanti per la realizzazione individuale”, ma essa stessa impone, reclama – rivolta ai policy makers – “di sradicare non solo la povertà, ma le multiformi cause della povertà”.
Dal punto di vista delle politiche economiche, sia nei paesi liberali sia in quelli sovranisti, democratici o autoritari, emerge la necessità di “attuare politiche economiche differenziate di uscita dalla povertà”. Lo aveva efficacemente intuito, con grande saggezza, un economista italiano forse poco studiato e altrettanto poco seguito dai nostri governanti: Paolo Sylos Labini (1920-2005). Leggasi, ad esempio, uno dei suoi ultimi scritti: Miseria e sottosviluppo, come uscirne?
Chiediamoci dunque: quando arriverà il tempo in cui, tutti noi, indipendentemente da convinzioni politiche, economiche o religiose, saremo in grado di comprendere che le disuguaglianze, tutte le disuguaglianze, non sono solo un problema morale, etico, politico, ma sono un freno, un terribile e temibile freno, allo sviluppo – tanto individuale quanto collettivo?
Lo facevano osservare, con mirabile coraggio, non sempre ascoltati, ieri Don Milani ed oggi Papa Francesco (enciclica Fratelli tutti). Lo sottolineano tutti gli economisti e sociologi che, coraggiosamente, oggi evidenziano come una società realmente giusta sia quella che conosce un’unica “disuguaglianza giusta”: dare di più a chi ha meno, essere capaci e in grado di redistribuire la ricchezza, producendola sempre attraverso il lavoro.
(Foto di Paolo Trabattoni)
Massimo Bramante
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