Dom. Mar 16th, 2025

OL. N°6

Spazi aperti alla poesia e alla narrativa



In questo numero:

Poesia

“La poesia non è di chi la scrive, è di chi gli serve” Mario Ruoppolo (Massimo Troisi) in Il postino

Scenderà la neve

E alfine scenderà la neve
cadrà lieve sui sentieri autunnali
che ancora fiammeggiano luce
danzerà livida nell’aria
d’un cielo desolato di dolore-
cadrà , cadrà la neve
sopra l’orrore delle guerre
sopra la spirale dell’odio
sulla strage di Gaza
sul vivo dolore di chi sopravvive
.

E sarà nivale la Terra
assolta dalle torture , dal sangue
innocente del nuovo genocidio –
sembrerà vergine la terra, e verde,
verde come il letto di giunchi
dove l’acqua del fiume
ora trascorre torbida.
E berrà la neve il fiume innocente.
Si farà argenteo. Trasparente.

Danila Olivieri ( Inedita ©Tutti i diritti riservati)

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Africa


Caldo e afoso continente,
sabbia cocente del deserto,
cime elevate di montagne sperdute,
serpenti, coccodrilli nella foresta tropicale,
sperduto orizzonte
che i tuoi occhi vedono lontano e nebbioso.
Cascate d’acqua, tumultuosi torrenti,
elevatissimi alberi.
Un popolo coraggioso e dignitoso,
bambini magri e affamati
e tu rimani stupefatta
alla vista delle bellezze naturali
sconvolta dalla povertà del popolo.


Nicoletta Lamberti
(Periodo1995-©Tutti i diritti riservati)

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Narrativa

Va’ là fuori, trova una storia che ami e poi raccontala” Ron Howard

L’inchiostro della vita

Mi trovavo davanti al mio computer, con lo schermo che illuminava la stanza buia. La tastiera, ormai così familiare, sembrava pronta a raccogliere i miei pensieri, ma non riuscivo a concentrarmi. La mente vagava, e mi resi conto che non era il momento giusto per scrivere lì, davanti al monitor. In fondo, ero circondato da dispositivi, ma il pensiero di digitare su una tastiera mi faceva sentire distante, come se le parole stesse avessero bisogno di qualcosa di più tangibile, di più genuino.

Decisi di alzarmi e di fare una pausa. Mi avvicinai a una vecchia libreria in un angolo della stanza, dove tenevo alcuni dei miei quaderni e penne. Non li usavo spesso, ormai, ma quella sera qualcosa dentro di me mi spingeva a cercare di nuovo quel legame. Trovo una penna stilografica, quella che mio padre mi aveva regalato anni fa, e la sensazione del suo peso nella mano mi fece sorridere.

Mi sedetti al tavolo, aprendo il quaderno. La carta era lì, liscia, pronta a ricevere i miei pensieri. La pagina bianca, immacolata, mi fissava, ma non mi spaventava. Anzi, in qualche modo mi dava un senso di possibilità, di apertura. In quel momento, mi resi conto che non c’era niente di simile alla carta, niente di simile a quella sensazione di inchiostro che fluiva sotto la penna. Non era solo scrivere, era un atto che mi faceva sentire completo, un’azione che mi radicava al presente ma allo stesso tempo mi collegava a qualcosa di molto più antico.

La stilografica scivolava sulla pagina, e il suono che emetteva mi riportava a tempi lontani. C’era una fluidità, una musicalità in quel movimento che non trovavo nel suono delle dita sulla tastiera. Ogni tratto, ogni parola che scrivevo, sembrava prendere vita, non solo perché stavo creando una storia, ma perché mi stavo connettendo con qualcosa di profondo, qualcosa che trascendeva il semplice atto di scrivere.

Mi misi a scrivere senza pensare troppo alla forma, come se le parole dovessero venire fuori liberamente. Era come tornare a casa, un posto che avevo quasi dimenticato. Scrivere a mano, con l’inchiostro che scivolava sulla carta, aveva un ritmo proprio, un ritmo che mi parlava direttamente, che mi dava un senso di pace che il computer non riusciva mai a offrirmi. Ogni parola che tracciavo non era solo una sequenza di lettere, ma un segno, un piccolo frammento di vita che restava impresso per sempre.

Mi venne in mente un ricordo: l’estate nella casa dei nonni, quando ero bambino. Le giornate sembravano infinite, fatte di sole caldo, risate e vecchi racconti intorno al tavolo. Mentre scrivevo, mi sembrava di essere lì, a sentire l’odore del pane appena sfornato, il rumore degli insetti nell’aria calda, e l’eco delle voci dei nonni che parlavano di tempi passati. Ogni parola scritta mi avvicinava di più a quella sensazione, come se la carta fosse una porta per accedere a un mondo che non c’era più, ma che, grazie a quel semplice gesto, restava ancora vivo.

La penna continuava a muoversi fluida sulla carta, e mi resi conto che quella scrittura non era solo un atto creativo, ma una forma di meditazione. La carta, l’inchiostro, mi permettevano di entrare in contatto con la parte più profonda di me stesso. Non avevo bisogno di altre distrazioni. Non mi importava se il mondo fuori stava correndo più veloce che mai, se il mio pc aspettava che io lo usassi per altre cose. In quel momento, tutto ciò che esisteva era quella penna, quella pagina, e la storia che stavo raccontando.

Quando chiusi il quaderno, mi accorsi di quanto tempo fosse passato. Non mi sembrava che fosse stata una semplice scrittura. Mi sentivo come se avessi vissuto un’esperienza, come se avessi viaggiato in un altro tempo, un’altra dimensione. E mi resi conto che, alla fine, non era il dispositivo che usavo a determinare la qualità della scrittura, ma la connessione che riuscivo a creare con quello che stavo facendo. La vera gioia della scrittura non era nei mezzi, ma nell’esperienza stessa, nella bellezza di lasciare che le parole prendessero vita, un segno dopo l’altro.

Antonello Rivano (Racconto inedito-©Tutti i diritti riservati)

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