Mar. Lug 8th, 2025

Bipolari: tra le ombre e la luce

Un incontro con Chiara Vergani sulla malattia e la forza della consapevolezza
[Di Stefano Pignataro]

“Bipolari in diretta” (Gruppo editoriale Writers Editors, settembre 2024), è un recente titolo della scrittrice, insegnante, pedagogista e criminologa Chiara Vergani. Specializzata in psicopedagogia e si occupa soprattutto di devianza giovanile.


La sinossi del volume recita: “Bipolari in diretta” è un’esplorazione approfondita e toccante del disturbo bipolare, una condizione mentale complessa che influenza profondamente la vita delle persone che ne sono affette. Chiara Vergani, con la sua vasta esperienza come pedagogista e criminologa, ci guida attraverso le sfide e le speranze di chi vive con il disturbo bipolare, offrendo uno sguardo critico e compassionevole sui meccanismi psicologici e sociali che lo accompagnano. Il libro si addentra nelle ultime scoperte scientifiche, nelle testimonianze di chi affronta quotidianamente questa condizione e nelle implicazioni legali e sociali ad essa connesse. Con un linguaggio chiaro e accessibile, “Bipolari in diretta” non è solo un’opera informativa, ma anche un richiamo alla comprensione e all’empatia verso una realtà spesso stigmatizzata. Un testo indispensabile per chiunque voglia approfondire la conoscenza del disturbo bipolare, sia dal punto di vista scientifico che umano.

– Come una professionista si approccia oggi al disturbo Bipolare? Negli ultimi anni c’è stato un aumento di casi?
Oggi per una professionista approcciarsi al disturbo Bipolare significa innanzitutto riconoscere che non si tratta di una condizione statica, ma di un’esperienza complessa, che evolve nel tempo e si intreccia profondamente con la storia personale, relazionale e sociale di chi ne è colpito. Non basta più una classificazione rigida tra tipo I e tipo II: è necessario adottare uno sguardo dinamico, capace di cogliere i mutamenti, le sfumature e le diverse modalità con cui il disturbo si manifesta nella vita quotidiana. Non esiste oggi una sola figura che possa gestire da sola la complessità del disturbo bipolare: psichiatri, psicologi, pedagogisti, assistenti sociali e anche criminologi collaborano per costruire percorsi di cura e di sostegno il più possibile personalizzati. All’interno di questo sistema, il mio compito è osservare, analizzare e comprendere non solo il comportamento manifesto, ma anche le dinamiche familiari, i meccanismi di esclusione sociale, le fragilità educative e le strategie di adattamento che ogni persona mette in atto. Un altro elemento fondamentale è il rispetto profondo per la soggettività della persona. Non si può più ridurre il disturbo Bipolare a un’etichetta diagnostica: ogni vissuto va ascoltato senza pregiudizio, senza semplificazioni. È importante riconoscere le risorse, non solo le fragilità, ed evitare approcci che stigmatizzano. La cura oggi passa anche attraverso il modo in cui si parla alle persone, il modo in cui si costruisce fiducia e alleanza terapeutica. Inoltre è imprescindibile mantenersi aggiornati. La ricerca scientifica continua a evolversi, proponendo nuovi modelli, nuove ipotesi neurobiologiche e nuove strategie di intervento, comprese quelle che integrano farmacologia, psicoterapia e pratiche di autoregolazione emotiva. Questo è, per me, l’approccio necessario: multidisciplinare, evolutivo, rispettoso e in continua formazione. Negli ultimi anni si ha l’impressione che i casi di disturbo Bipolare siano in aumento. In realtà, più che un reale incremento della malattia, quello a cui stiamo assistendo è un fenomeno diverso: oggi se ne parla di più, c’è una maggiore sensibilizzazione e gli strumenti diagnostici sono diventati più precisi. Questo porta a un riconoscimento più frequente e tempestivo dei sintomi, anche di quelli che in passato sarebbero passati inosservati o sarebbero stati interpretati in modo diverso. Fino a qualche decennio fa, molte persone affette da disturbo Bipolare non ricevevano mai una diagnosi corretta. Spesso venivano etichettate semplicemente come depresse, problematiche o nei casi più gravi, psichiatricamente instabili, senza una vera comprensione del quadro clinico. Oggi, invece, grazie a una maggiore formazione degli operatori e a una riduzione, anche se parziale, dello stigma che ancora pesa sulla salute mentale, è più facile che una persona venga ascoltata e indirizzata verso un percorso diagnostico adeguato. Anche l’attenzione mediatica ha avuto un ruolo importante: articoli, libri, testimonianze, convegni hanno contribuito a portare alla luce una patologia che esisteva da sempre, ma che era nascosta o mal interpretata. Parlare apertamente di disturbo Bipolare non solo ha reso più visibili i casi esistenti, ma ha anche favorito una cultura dell’ascolto e della prevenzione, soprattutto tra i più giovani. In questo senso, quindi, il “maggior numero di casi” che percepiamo oggi non rappresenta tanto un aumento del disturbo nella popolazione, quanto piuttosto un miglioramento nella capacità di vederlo, riconoscerlo e affrontarlo in modo più consapevole.

– Esiste una corrispondenza tra paranoia e disturbo Bipolare?
La relazione tra paranoia e disturbo Bipolare non è automatica, ma può emergere in alcune fasi della malattia, soprattutto durante gli episodi più gravi. Nel disturbo Bipolare, infatti, i sintomi psicotici, tra cui pensieri paranoici, possono comparire sia nella fase maniacale sia nella fase depressiva, quando l’intensità dell’episodio è molto elevata. Durante una fase maniacale acuta, una persona può sviluppare idee di grandiosità che sfociano in pensieri paranoici: può sentirsi spiata, perseguitata o ostacolata da forze esterne. Analogamente, in una fase depressiva molto profonda, la paranoia può assumere la forma di idee di colpa eccessive, convinzioni di essere puniti, o credenze che gli altri vogliano fare del male. È importante sottolineare però che non tutte le persone con disturbo Bipolare sviluppano sintomi paranoici, tendono a manifestarsi nei casi più severi o quando il disturbo non è ben controllato terapeuticamente. Quindi diciamo che la paranoia può comparire nel disturbo Bipolare, ma non è una caratteristica costante. Quando si manifesta, è di solito legata alla gravità dell’episodio e alla perdita di contatto con la realtà.

– Che mezzi hanno oggi gli psichiatri, gli psicologi per approcciare il paziente affinché si senta meno solo e anche più ascoltato?
Quando si parla di disturbo Bipolare, non ci si può limitare a considerare solo l’aspetto farmacologico. Chi vive questa malattia affronta non soltanto sbalzi d’umore estremi, ma anche un senso profondo di solitudine e di incomprensione che può peggiorare il quadro clinico. L’isolamento infatti non è solo una conseguenza della sofferenza, ma diventa spesso un fattore che alimenta la depressione, rallenta la ripresa e rende ancora più difficile chiedere aiuto. Gli psichiatri oggi hanno a disposizione diversi strumenti per curare e per avvicinarsi al paziente in modo più umano e completo. Prima di tutto c’è il lavoro sulla terapia farmacologica, che viene sempre più personalizzata, con l’obiettivo di stabilizzare l’umore e di rispettare la qualità della vita della persona. Scegliere il farmaco giusto, in dosaggi adeguati, significa anche cercare di ridurre gli effetti collaterali che potrebbero far sentire ancora più emarginato chi già si sente fragile. Accanto ai farmaci, è fondamentale costruire una relazione basata sull’ascolto autentico capace di riconoscere il valore della persona oltre la sua diagnosi. Spesso bastano piccoli segnali di presenza, disponibilità e comprensione per aiutare chi soffre a sentirsi meno solo, a percepire che esiste uno spazio dove la sua voce ha diritto di esistere. Un altro strumento importante è la psicoeducazione. Aiutare il paziente a conoscere meglio la propria malattia, a riconoscere i segnali di allarme, a capire che quello che sta vivendo non è “colpa sua”, ma una condizione da gestire, può fare una differenza enorme. Sapere cosa sta succedendo, mettere ordine nel caos delle emozioni, riduce la paura e restituisce un senso di controllo sulla propria vita. Molto spesso poi il lavoro si allarga alla rete familiare, quando possibile. Coinvolgere le persone care, renderle alleate e non giudici, permette al paziente di non sentirsi solo nella battaglia quotidiana contro il proprio disturbo. Anche i gruppi di auto-aiuto e i percorsi di supporto psicologico mirato offrono opportunità preziose. Incontrare altre persone che vivono esperienze simili aiuta a rompere il muro dell’isolamento, a riconoscersi, a non sentirsi più “diversi” o “sbagliati”. L’approccio al disturbo Bipolare non è dunque solo una questione di farmaci o di protocolli: è prima di tutto un incontro tra esseri umani e ogni gesto di ascolto vero, ogni tentativo di costruire relazione, diventa un piccolo grande atto di cura.

– Con quale metodo scientifico una professionista come lei ha approcciato questo studio?
Oggi un professionista non può prescindere dalla ricerca scientifica, l’approccio si fonda su un dialogo continuo con le ultime scoperte in campo medico, genetico, farmacologico e psicoterapeutico. La ricerca scientifica ha fatto enormi passi avanti nella comprensione del disturbo Bipolare, studi genetici hanno dimostrato che esiste una predisposizione ereditaria significativa: avere parenti di primo grado affetti da questa patologia aumenta notevolmente il rischio di svilupparla. Tuttavia, il gene non è destino: i fattori ambientali giocano un ruolo fondamentale nell’attivazione del disturbo, per questo, nel mio lavoro, ho sempre cercato di coniugare i dati oggettivi della scienza con l’osservazione qualitativa del contesto familiare, educativo e relazionale. Lo studio del disturbo Bipolare, nel mio caso, parte dall’analisi dei casi concreti, attraverso colloqui, interviste, osservazione partecipata e revisione di materiale clinico. Non si tratta solo di raccogliere dati, ma di dare senso ai racconti, alle emozioni, ai comportamenti. L’approccio è quello della ricerca-azione: osservo, rifletto, intervengo e torno a osservare. Questo ciclo continuo mi permette di affinare gli strumenti e di adattare le strategie alle specificità di ogni situazione. Il metodo include anche una forte componente etica: non basta conoscere, bisogna anche porsi domande su come usare quella conoscenza. Scrivere questo libro è stato un modo per restituire al grande pubblico una parte di quello che ho imparato sul campo, ma anche per contribuire a costruire una cultura del rispetto e della comprensione nei confronti di chi vive una sofferenza psichica.

– In una società narcisista come quella attuale, i Bipolari fanno più paura perché mostrano l’ombra del nostro malessere collettivo?
È una riflessione molto profonda e, a mio avviso, estremamente pertinente. Viviamo in una società che esalta l’efficienza, la performance, l’immagine. In questo contesto, le fragilità psichiche, soprattutto quelle che sfuggono al controllo e all’autoregolazione, diventano qualcosa che si preferisce nascondere o patologizzare in modo sterile. I Bipolari fanno paura perché sono lo specchio di un’instabilità che ci appartiene tutti, ma che cerchiamo disperatamente di tenere a bada. La ciclicità del disturbo, il passaggio repentino dall’euforia alla depressione, mette in crisi l’ideale di controllo continuo a cui siamo educati. Chi vive con il disturbo Bipolare è spesso visto come imprevedibile, e questo mina la nostra illusione di sicurezza. Ma c’è di più: in una società narcisista, dove il valore personale è misurato in base al successo, alla produttività, all’apparenza, chi si ferma, chi crolla, chi mostra la propria vulnerabilità, diventa una sorta di monito, un corpo estraneo da espellere. Ecco perché il disturbo Bipolare viene ancora oggi stigmatizzato. Non perché sia incomprensibile, ma perché ci costringe a fare i conti con qualcosa che non vogliamo vedere: la possibilità che anche noi, sotto la superficie lucida, siamo fragili, emotivi, instabili. Parlare di Bipolarismo in modo serio, umano e scientifico, come ho cercato di fare nel libro, è anche un atto politico: significa restituire dignità alla complessità dell’esperienza umana e smontare la narrazione tossica secondo cui la sofferenza mentale è solo un difetto da correggere, anziché una parte della condizione umana da accogliere, ascoltare e comprendere.

– Se dovesse sintetizzare in una frase la sua speranza rispetto a questo lavoro, quale sceglierebbe?
Vorrei che questo libro aiutasse a guardare le persone con disturbo Bipolare non con paura o pregiudizio, ma con empatia e consapevolezza, riconoscendo in loro non solo la malattia, ma soprattutto la forza, la sensibilità e l’umanità che li rendono parte preziosa della nostra comunità.

Stefano Pignataro

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