Mar. Lug 8th, 2025

Disarmare le parole

Insulti, auguri di morte e disprezzo dell’altro: la violenza verbale dilaga tra politica e social. È ora di fermarsi.
[di Antonello Rivano]


Disarmare le parole, prima che le parole armate facciano male.” Questa frase, spesso attribuita alla giornalista Federica Angeli, è diventata negli anni un monito prezioso. Lo è ancora di più oggi, in un tempo in cui la politica – e chi la commenta – sembra sempre più incline non al confronto ma all’attacco, non al dissenso ma all’odio.

Non siamo nuovi al linguaggio acceso, né tantomeno al sarcasmo come forma di lotta politica. Ma quello a cui assistiamo oggi, soprattutto sui social ma anche nei talk show, negli editoriali e nei consigli comunali, ha superato la soglia della decenza. Gli avversari non sono più visti come interlocutori da battere con argomenti, ma come nemici da distruggere con insulti. E spesso l’insulto non risparmia nemmeno le famiglie, i figli, i morti.

Si è smarrito il senso del limite. Si evoca la morte per un voto sbagliato, si augura il cancro a chi la pensa diversamente, si ride se qualcuno muore “dalla parte sbagliata”. E non si tratta solo di frasi isolate, dette da qualche squilibrato in cerca di attenzione: spesso queste derive arrivano da profili pubblici, da politici locali e nazionali, da opinionisti, da utenti seguiti da migliaia di persone.

È diventato normale leggere invettive contro bambini “colpevoli” di avere un cognome noto. È normale che si auguri il peggio a chi ha perso un figlio, se quel figlio apparteneva alla “parte avversa”. E tutto questo accade sotto gli occhi di un pubblico che applaude, condivide, rilancia. Come se l’odio fosse diventato una moneta di scambio, un modo per affermare identità e appartenenza.

Ma il punto non è soltanto morale. È civile e politico. Le parole hanno un peso. Preparano il terreno. Lo sappiamo dalla storia. Lo sappiamo dalla cronaca. L’odio verbale è il terreno di coltura dell’odio reale. Si parte da uno sfottò violento e si arriva all’aggressione fisica. Si parte da un meme feroce e si finisce con le molotov sotto casa. Non è retorica. È già successo.

Disarmare le parole, dunque, non è un gesto buonista. È un atto di responsabilità democratica. Significa ricordare che il dissenso è sacro, ma lo è anche la dignità dell’altro. Che si può combattere duramente una politica, un’idea, una visione del mondo, ma non si deve mai smettere di vedere nell’altro un essere umano.

È tempo di abbassare i toni. Di riprendersi il diritto al conflitto, sì, ma dentro i confini della civiltà. Perché quando le parole diventano pietre, prima o poi qualcuno si farà male davvero. E allora non potremo dire che non lo sapevamo.

Nel momento in cui chiudiamo questo editoriale, un fatto drammatico raccontato dall’agenzia ANSA ci ricorda quanto il linguaggio d’odio possa avere conseguenze devastanti. Stefano Addeo, professore di Marigliano, ha tentato il suicidio dopo essere stato travolto dall’accanimento mediatico per un post di odio rivolto alla figlia della premier Giorgia Meloni. Un post in cui augurava alla ragazza di morire, evocando la tragica morte della 14enne Martina Carbonaro.
L’uomo, ricoverato in codice rosso ma non in pericolo di vita, ha confessato di non aver retto la pressione e l’ostilità scatenate da quelle parole. Ha chiesto scusa, ma ha anche denunciato di essere stato “linciato” mediaticamente.
Questo episodio, doloroso e complesso, è la prova tangibile di come la violenza verbale – amplificata e diffusa soprattutto sui social – non sia solo un problema di tono o stile, ma possa diventare un fattore di distruzione personale e sociale.
Per questo, la sfida di “disarmare le parole” è urgente. Non è solo una questione di educazione o cortesia, ma di salute pubblica e civiltà democratica.

Antonello Rivano

image_printDownload in PDF