A cento anni dalla nascita di Giorgio Amendola – Il suo originale riformismo

Giorgio AmendolaA CENTO ANNI DALLA NASCITA DI GIORGIO AMENDOLA – IL SUO ORIGINALE RIFORMISMO

Dal maggio al luglio 1977 sui principali organi d’informazione italiani si sviluppò una fitta polemica sul “coraggio” e la “viltà” degli intellettuali.
Essa aveva preso origine dalle posizioni assunte da uno dei  maggiori poeti italiani,Eugenio Montale,e da Leonardo Sciascia che,con varie argomentazioni,avevano dichiarato di comprendere e condividere la scelta di diserzione compiuta dalla gran parte dei giudici popolari al processo intentato a Torino contro le Brigate Rosse. Una diserzione motivata non da problemi di principio quanto piuttosto dalla paura fisica di subire rappresaglie. Era stato Giulio Nascimbeni a pubblicare sul “Corriere della Sera”[1] un’intervista a Montale in cui  alla domanda “Se fosse stato estratto il suo nome avrebbe accettato di fare il giudice popolare?” Montale aveva risposto “Credo di no . Sono un uomo come gli altri ed avrei avuto paura come gli altri. Una paura giustificata dallo stato attuale delle cose,ma non metafisica né esistenziale”. Un giudice popolare,per Montale,non aveva infatti alcuna garanzia e pertanto “..davanti ad episodi come quello di Torino…dico che non si può chiedere a nessuno di essere un eroe”. E  ciò  a fronte del fatto che “La sconfitta dello Stato.. è vecchia e viene da lontano… è la conseguenza,estrema,di un deterioramento che appare inaccettabile”. A tale posizione avevano replicato Galante Garrone e,soprattutto,Italo Calvino che nell’articolo“Al di là della paura”,pubblicato sempre sul “Corriere della sera”[2],aveva  sostenuto,con estrema nettezza,di avvertire come un pericolo grave il fatto che “…il nostro massimo poeta .. ci esorti a fare nostra la morale di Don Abbondio”. Il giorno seguente,il 12 Maggio 1977,Leonardo Sciascia rincarò la dose e nel pezzo “Non voglio aiutarli in alcun modo”sostenne, senza alcuna remora,che non avrebbe mai accettato di far parte di una giuria per “..non fare da cariatide a questo crollo o disfacimento (dello Stato) di cui in nessun modo e minimamente mi sento responsabile… C’è una classe di potere che non muta e non muterà se non suicidandosi. Non voglio per nulla distoglierla da questo proposito e contribuire a riconfortarla”. A queste tesi,avvertite come preoccupante spinta alla disgregazione della Nazione,si oppose con durezza  Giorgio Amendola che,in un’intervista a Gianni Corbi pubblicata su“L’Espresso”[3],contestò una concezione“aristocratica”della lotta politica di cui aveva trovato eco in un intervento di Norberto Bobbio apparso su “La Stampa”[4]. Per Amendola il pessimismo estremo sui destini dello Stato democratico equivaleva a“disfattismo”.

D’altra parte troppe volte in passato gli intellettuali italiani avevano dato prova di assenza di coraggio civico. “Il coraggio civico non è mai stato una qualità ampiamente diffusa in larghe sfere della cultura italiana…”.Gli intellettuali italiani infatti,già durante il fascismo,avevano dato prova di “Nikodemismo… che consisteva nel rendere sempre il dovuto omaggio a Cesare -cioè al regime- riservando alla propria esclusiva coscienza le intime credenze di libertà”.

Alle posizioni di Amendola seguirono reazioni indignate come quella,stupefacente,di Franco Fortini, cui seguì una secca replica della redazione de “ L’Unità”[5] che accusò il dirigente comunista di avere assunto,in quella occasione,l’identico atteggiamento di Scelba contro“il culturame”. Leonardo Sciascia fu poi aspramente redarguito da Edoardo Sanguineti su “L’Unità”[6]per essere diventato quasi“una sentinella che diserta”. La polemica si trascinò per qualche tempo divenendo sempre più incandescente. Essa aveva evidenziato una divaricata ed  opposta concezione dello Stato. Da un lato chi si spingeva fino al punto estremo,di netta equidistanza, arrivando a coniare la parola d’ordine “Né con lo Stato né con le Brigate Rosse”. Assioma in apparenza  legittimo in quanto  le istituzioni italiane,da molto tempo e per troppi aspetti,apparivano irrimediabilmente degradate,un  ostacolo alla compiuta realizzazione degli inalienabili diritti di libertà e di giustizia dei cittadini. Del tutto opposta la linea di chi orgogliosamente difendeva il carattere,democratico e progressivo,dello Stato democratico,gli elementi di continuità del complesso,seppure incompiuto processo,della sua distintiva formazione,figlia della tragica ed esaltante esperienza della guerra di liberazione. In una tale visione la carta costituzionale rappresentava la concorde ed avanzata sintesi del patto fondante della Repubblica conquistata grazie al sangue versato per la patria dai combattenti antifascisti. Lo Stato democratico andava perciò salvaguardato e difeso,in maniera intransigente,da ogni forma di violenza eversiva e le sue radici andavano ulteriormente irrobustite con lo sviluppo e l’estensione della lotta democratica di massa per la realizzazione di più ampi e percettibili elementi di giustizia e libertà. Il pluralismo,una visione dell’agire politico volta al confronto,alla convergenza ed alla collaborazione con altre formazioni e personalità della politica e della cultura,l’attenzione ad ogni nuovo fermento culturale che emergeva nella società italiana, in Europa e nel mondo, la tendenza alla feconda provocazione della discussione,l’assenza di opportunismo,conformismo,la passione,spesso scevra di diplomazia nella battaglia politica,l’intransigenza sui principi,la limpida tensione morale ed una straordinaria capacità di lettura anticipatoria delle tendenze storiche,politiche ed economiche del capitalismo italiano,questi alcuni tratti, cristallini, della biografia politica ed umana di Amendola.

 La sua formazione politica e culturale e l’approdo al Partito Comunista si erano realizzati attraverso lo strappo, netto e polemico,col suo mondo d’origine eppure la sua scelta di essere un “rivoluzionario di professione” non sarà mai ideologica e fideistica. Assoluta e intransigente,sempre, l’opposizione al fascismo. In gioventù si era trovato immerso nel pieno della crisi dello Stato liberale e nel torbido clima della guerra civile. Per Giorgio il fascismo non era stato“una parentesi buia della storia d’Italia” quanto piuttosto la tragica espressione, venuta in emersione,di un substrato, torbido e reazionario,generato da un molteplice crogiuolo di fattori di grave arretratezza economica, culturale, civile le cui cause andavano comprese ed indagate a fondo per isolare le forze più retrive ed inquinanti dal corpo della Nazione così da impedire  che la Storia potesse un giorno riprodurre i propri mostri. Amendola attraverserà la fase della clandestinità,il carcere,il confino,l’esperienza di esule in Francia ed in Africa. Sceglierà di tornare in Italia quando si creeranno le condizioni,minime,per lo sviluppo dell’opposizione armata al fascismo ed al nazismo. Sarà  a capo della resistenza romana e,nella direzione del CLN, si assumerà la responsabilità dell’azione armata in Via Rasella contro una pattuglia tedesca,l’operazione militare cui seguirà la rappresaglia delle Fosse Ardeatine. Tutta l’Italia,al Sud come al Nord,doveva insorgere per la libertà e l’indipendenza della Patria contro l’occupante le cui retrovie non dovevano risultare più sicure. Passato al Nord  sarà tra coloro che, insieme a Longo ed a Sereni, decideranno la condanna a  morte di Mussolini. Eppure l’avere vissuto da protagonista tutti gli snodi essenziali della storia del Novecento,dalla crisi dello Stato Liberale al fascismo ed alla democrazia repubblicana, non lo farà mai indulgere in schematismi esemplificativi,in  facili scorciatoie nella dura lotta per la costruzione della democrazia e del socialismo in Italia. Profonda era infatti in lui la consapevolezza degli imprescindibili condizionamenti costituiti,all’indomani del secondo conflitto mondiale,dallo scenario di un mondo ormai diviso in due distinte sfere d’influenza che sconsigliavano forzature avventuriste, di tipo greco. Netta la sua scelta di campo e la sua fedeltà all’Unione Sovietica ed al blocco socialista. Forte e cosciente,al contempo,la convinzione della sussistenza,in Italia,della forza e del robusto potere dei grandi gruppi economici e finanziari potenzialmente pronti all’avventura.

Prescindere da una realistica analisi dei rapporti di forza avrebbe prodotto un’involuzione rovinosa,il blocco del percorso di avanzata democratica del movimento dei lavoratori,una nuova,probabile,tragica sconfitta. A Giorgio Amendola infatti era del tutto chiaro come l’unità della Nazione fosse stata raggiunta, essenzialmente, grazie all’azione, tenace e risoluta,di esigue minoranze,compreso un ristretto manipolo di uomini di tendenze sinceramente democratiche nel mentre invece la stragrande maggioranza delle masse popolari, in specie contadine, aveva accolto i cambiamenti con sostanziale passività. Una massa,in sostanza,ancora troppo“mobile e incerta”. L’unità del Paese,relativamente recente, ne aveva evidenziato l’adolescente spirito di nazione. Non gli sfuggiva come l’Italia non avesse mai vissuto,nella sua lunga storia, alcuna grande riforma religiosa né come l’ assetto politico e statuale raggiunto non fosse stato conseguente ad una vera e propria rivoluzione a sfondo sociale. Ciò poteva spiegare perché il popolo italiano troppe volte aveva manifestato una scarsa sensibilità pubblica ed un’educazione politica troppo monca e limitata. Convinzioni ulteriormente rafforzate dallo stridente dualismo ancora esistente tra il Nord ed il Sud del Paese. Nell’Italia Meridionale dell’immediato secondo dopoguerra ancora gracilissimo appariva infatti il tessuto connettivo democratico,estremamente fragile l’ossatura organizzativa dei partiti antifascisti,scarsa e quasi del tutto inincidente la partecipazione delle masse alla vita pubblica. Soltanto la rottura rappresentata dalla guerra di liberazione nazionale aveva posto le inedite premesse per la costituzione di un nuovo Stato,mai in precedenza conosciuto,che avrebbe finalmente potuto garantire l’avvenire al popolo italiano,colmando la distanza fino ad allora avvertita tra masse popolari e Stato, tra governanti e governati.

Compito del Partito doveva essere quello di modificare, con progressività, la situazione, ampliando le basi democratiche dello Stato mediante l’organizzazione e la direzione della lotta di popolo,per l’attuazione della riforma agraria e per l’industrializzazione,nelle campagne e nelle città. Dall’osservatorio privilegiato del Mezzogiorno drammatica era apparsa ad Amendola l’assenza di una classe dirigente autenticamente democratica e riformatrice. I vecchi ceti dell’Italia liberale, e poi fascista, avevano evidenziato l’assoluta incapacità di svolgere una funzione conseguentemente nazionale. Il problema era di lavorare alacremente per creare,innanzitutto nel Mezzogiorno,una nuova ed avanzata classe dirigente,collegata col proletariato industriale del Nord,capace di sviluppare la lotta di massa democratica per migliorare,decisamente,le gravi condizioni economiche,civili,materiali della società meridionale,fino ad allora in larga parte agraria, portando finalmente a compimento l’incompiuto processo risorgimentale. Un impegno cui egli si dedicherà con straordinario entusiasmo ed energia,con l’elaborazione e l’analisi teorica e nella concreta organizzazione e direzione della lotta di massa. Illuminante al proposito l’esperienza di “Cronache Meridionali”, la rivista che dirigerà insieme a Francesco De Martino ed a Mario Alicata ed a cui collaboreranno,tra gli altri,Gerardo Chiaromonte e Giorgio Napolitano. Quella di Amendola è una visione originale e dinamica,un’interpretazione,creativa,del concetto togliattiano di democrazia progressiva,di tipo nuovo. Le possibilità di sviluppo democratico della società italiana apparivano realizzabili solo in presenza dell’accordo,su base programmatica, delle forze democratiche,anzitutto tra quelle  derivanti dall’originario comune ceppo socialista e dalla loro piena e comune assunzione di responsabilità nelle funzioni di direzione dello Stato. E ciò sarebbe stato possibile superando incrostazioni,riserve,contrapposizioni ideologiche e di parte. Concrete convergenze dovevano inoltre realizzarsi con le forze cattoliche progressive,con le personalità di formazione laica e liberale per dare vita ad un grande,esteso,potente fronte popolare di progresso anzitutto nel Mezzogiorno d’Italia. Tale il senso del paziente lavoro di Amendola nel ritessere una trama di rapporti,politici e personali,con personalità eminenti quali Manlio Rossi Doria,Guido Dorso,con lo stesso Benedetto Croce verso cui pure più volte in passato era stato duramente polemico. Una tale convinzione,con la proposizione di una linea politica incisiva e conseguente, era originata in Amendola dall’approfondito studio della specificità della storia nazionale,dal tortuoso,complesso e tormentato percorso attraverso cui era stata raggiunta l’unità della Nazione,dalla convinzione,piena,della parzialità, in specie sul piano delle riforme istituzionali e sociali, con cui era stato portato a compimento il processo risorgimentale. E la lotta vittoriosa, contro il fascismo ed il nazismo, non poteva  indurre a ritenere che fossero state estinte e prosciugate, per sempre, le radici conservatrici e reazionarie presenti nel substrato più profondo dello Stato Nazione. Pericolosa e fallace,di conseguenza, l’illusione che il Paese  fosse ormai indenne,per sempre,dal pericolo di rigurgiti involutivi,reazionari, autoritari. A fronte di una tale cosciente consapevolezza era perciò indispensabile sollecitare in ogni modo la partecipazione e la responsabilità,civile e politica,dei cittadini e delle loro espressioni organizzate,i Partiti ed i Sindacati innanzi tutto. In un tale processo esiziale appariva qualsivoglia suggestione di arrogante  autosufficienza di parte.

Ed il destino e le fortune del Partito non dovevano mai essere disgiunte dal destino e dalle fortune della nazione e dall’assoluto imperativo di rafforzarne l’unità. Per Amendola non vi era alcuna possibilità di avanzata del movimento dei lavoratori se veniva indebolito e sfilacciato il tessuto economico e connettivo del Paese,se non si teneva sotto controllo l’inflazione che falcidiava i redditi fissi, i salari e le pensioni, se non si incrementava la produttività del lavoro, prendendo le distanze dal“facile”rivendicazionismo egualitario,se non si elevava la cultura generale della società, incrementandone il livello tecnologico e scientifico,fattori essenziali per la capacità di competizione,generale,del sistema. La lotta all’inflazione e il suo controllo era l’obiettivo primario da conseguire per la difesa della capacità di acquisto del lavoro dipendente. Una priorità su cui incentrare l’azione unitaria delle forze sindacali e del lavoro. Queste alcune delle ragioni di fondo da cui Amendola ricavava una forte fiducia nelle possibilità delle funzioni progressive dello Stato nazionale.

Esso rappresentava l’unica creazione davvero rivoluzionaria in un millennio di storia del popolo italiano. Certo bisognava ancora lavorare,aggiornare,innovare sintonizzando la legislazione ai tempi nuovi. Di certo però nulla di positivo si poteva costruire se si era disposti ad assistere,inermi,ad azioni miranti a mutare, strutturalmente e definitivamente,le basi stesse dello Stato dopo averlo prima mortalmente indebolito. Era del tutto errato, perciò,combattere lo Stato in quanto tale, considerarlo di per sè come nemico e non lottare per trasformarlo ancora più profondamente in meglio, quale struttura indispensabile anzitutto alla difesa delle fasce sociali più deboli e marginali.

Nessuna concessione alla demagogia,quindi,e nessuna semplificazione dottrinaria. Il punto era perciò continuare a battersi per una democrazie, nuova e più avanzata, che non dovesse mai prescindere dalla difesa di tutte le libertà, pubbliche e private, incrinando ed eliminando,sempre più in profondità, ogni esagerato privilegio. Se era stata avviata,come si è detto,con la resistenza,la costruzione di uno Stato nuovo il cui essenziale fondamento era rappresentato dalla Costituzione repubblicana, nessuno poteva mai essere autorizzato ad oltrepassare, per interesse di gruppo,ceto o casta, i limiti consentiti dallo spirito delle leggi comunemente concordate. Un impianto concettuale in cui, in tutta evidenza, si rifletteva la lezione del padre, di Giovanni Amendola, il cui nucleo essenziale di pensiero veniva però ulteriormente espanso e sviluppato in una visione della storia dinamica e moderna, nella profonda osmosi e sintonia con le sollecitazioni al cambiamento ed al progresso provenienti dalle classi popolari, dal “ventre” della nazione con cui ci si doveva di continuo rapportare. Posizioni, complesse e spesso impopolari,soprattutto se proposte in una fase storica ancora assai impregnata di acuti elementi di autentica ubriacatura ideologica. Amendola fu propositore anche di idee, anticipatorie ed illuminanti, quale quella del Partito unico della sinistra,spesso osteggiate e combattute all’interno di entrambi i Partiti della sinistra, comunista e socialista. Anomalo fu ancora il modo in cui in lui pubblico e privato continuamente s’intrecciavano, quasi fondendosi. Frequenti in “Un’isola”, ed in “Una scelta di Vita”i richiami al padre,alla madre,alla sua devastante malattia. Tracce di un’autobiografia intensissima,la cui trama è stata di recente efficacemente ricostruita da Gianni Cerchia. Amendola osteggerà sempre l’idea di un Partito pietrificato nel dogma e perciò inerme nella altera ed orgogliosa rivendicazione della sua“diversità”. Si batterà piuttosto per dar vita ad una forza politica profondamente innervata nella storia della Nazione ed in grado perciò di esercitare,conseguentemente,una incidente azione politica,quotidiana,atta a modificare,a vantaggio della classe operaia e dei lavoratori, i rapporti di forza esistenti tra i distinti ceti sociali del Paese progressivamente eliminando i contrasti più stridenti e gli odiosi, persistenti privilegi delle forze più retrive del grande padronato industriale,dei monopoli,degli agrari,del capitale finanziario nazionale. Analisi, impianto teorico, proposta politica che anche a Salerno aveva registrato una larga incidenza in fasce importanti del partito, a partire dalle rappresentanze parlamentari, dagli uomini di punta della Federazione comunista di quel tempo,gli onorevoli Gaetano di Marino,Tommaso Biamonte,Giuseppe Amarante e più avanti Roberto Visconti, cresciuti alla sua scuola e  che riconoscevano in lui, senza incertezza, il proprio riferimento più autorevole. Infine il rapporto coi giovani,la tensione al dialogo,fitto ed intenso,polemico e fecondo, proiettato in un orizzonte travalicante il tempo presente e l’immediata contingenza storica, la fiducia nel destino della Patria e della Democrazia, l’attenzione ad educare,con l’ossessivo e rigoroso richiamo alla necessità dello studio e dell’approfondimento critico,i nuclei d’avanguardia di quella che avrebbe dovuto diventare la futura classe dirigente del Paese. Nel 1974 a Salerno,nel Cinema Augusteo,si tenne una grande manifestazione organizzata dalla Federazione Comunista salernitana. Amendola, che la presiedeva, scelse di non  fare  il classico comizio. Preferì, per nulla incline come era a considerare il confronto ed all’occorrenza la lotta politica quale mera tattica,magari costellata anche di trappole ed agguati,un confronto pubblico,esplicito,aperto e senza reti,coi giovani. Mi capitò,dopo la breve introduzione del Segretario della Federazione salernitana,di fare un intervento. In esso, ancora impregnato e sotto la suggestione della recente lettura di “Proletari senza Rivoluzione” di Renzo Del Carria, chiesi polemicamente ad Amendola se non considerasse un tragico errore il fatto che il Partito Comunista non avesse spinto,all’indomani dell’attentato a Togliatti,in direzione della  soluzione estrema,insurrezionale,della presa del potere in tal modo vanificando un’irripetibile occasione. Amendola replicò,con pacata concretezza, all’allora ancora “giovane compagno”che era errato immaginare che il processo di trasformazione democratica della società potesse realizzarsi, ovunque ed allo stesso modo,nelle identiche forme in precedenza assunte in Urss con la Rivoluzione di Ottobre o nella Cina Popolare, magari con l’illusione della spallata repentina,prescindendo del tutto dalle radici e dalle specificità economiche, storiche,culturali,religiose delle distinte nazioni.

Concluse sostenendo che certo c’era ancora molto da fare in un paese in cui tanti erano i medici e gli architetti e così pochi gli scienziati,gli ingegneri, gli operai specializzati. Il consumo di carne di una famiglia contadina nella Piana del Sele, ed in tanta parte dell’Italia meridionale, che per decenni e decenni era stato bassissimo ora però,in pochi anni,si era più che quintuplicato e c’erano più scuole, strade ed ospedali. Tantissimi giovani,prima discriminati per ragioni di ceto,avevano finalmente libero accesso alla cultura ed al sapere. Sintomi, importanti e di rilievo,della crescita del tenore e della qualità di vita della popolazione,anche meridionale. Conquiste che non si sarebbero potute realizzare se  in Italia i comunisti avessero optato per una diversa, avventurosa, rovinosa strategia.

                                                                                                      PIERO LUCIA

 



[1] Su “ Il Corriere della sera” del 3 maggio 1977

[2] “ Il Corriere della sera” 11 Maggio 1977

[3] “ L’Espresso” 5 Giugno 1977

[4] “ La Stampa” 15 Maggio 1977

[5] “ L’Unità” 3 Giugno 1977

[6] “ L’Unità” 26 giugno 1977