Il 27 gennaio viene celebrato il “Giorno della Memoria”, in ricordo delle vittime dell’Olocausto perpetrato dalla gerarchia nazista nei confronti degli ebrei e di tutte quelle minoranze non considerate “degne” di esistere nel disegno folle di Hitler. L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite stabilì così il giorno della memoria nell’anniversario della liberazione del campo di concentramento di Auschwitz ad opera delle truppe russe.
La parola olocausto deriva dal greco “bruciare interamente”, ma nel giudaesimo era associato in riferimento al sacrificio, visto non come qualcosa di negativo ma come qualcosa di positivo, e quindi non paragonabile a ciò che accadde all’interno dei campi di sterminio. Proprio per questo si decise di sostituire il termine olocausto con il termine “Shoah” cioè “catastrofe” o “distruzione”. La bibliografia su questo argomento è vastissima, tanti sono stati i saggi di sociologi che hanno provato a spiegare e a comprendere ciò che accadde nelle menti gelide dei gerarchi nazisti, tante sono state le testimonianze in cui si è cercato di recuperare la memoria dei pochi supersiti dei campi, tanti ancora sono stati i saggi scritti in merito all’argomento ed è proprio per questo non incorrere nell’errore di scrivere banalità o cadere nella retorica. Proprio per questo cercherò di focalizzarmi su due figure che vissero duramente gli anni della sciagura nazista.
Primo Levi, chimico ebreo, internato nel campo di concentramento di Monowitz, campo satellite di quello di Auschwitz, riuscì a salvarsi in maniera miracolosa dal lager tedesco. Quello che Levi descrisse perfettamente fu ciò che accadde quotidianamente all’interno del campo e come un uomo, per render salva la propria vita, era disposto a fare qualsiasi cosa. Tanti sono gli accenni agli stessi ebrei che ebbero il controllo di sorveglianti all’interno del campo, che collaborarono con gli stessi tedeschi e molto spesso, per deliziare gli sguardi dei gerarchi, più crudeli di loro, per aver salva la vita. In “Se questo è un uomo”, Levi descrisse precisamente la giornata all’interno del campo e come egli stesso, nei momenti finali della prigionia, con le poche scorte disponibili di viveri, evitò di condividerle per la propria sussistenza condannando probabilmente gli altri alla morte. Oltre al famoso, libro Levi spiegò in “La Tregua” anche il ritorno a casa dal campo di prigionia, un’avventura quasi surreale nell’Europa nella fine della guerra, dove a tratti si percepisce quasi la voglia di tornare all’interno del lager, dove, secondo le parole di Levi, la morte era certa, mentre fuori, dove la speranza della vita, uccideva più della certezza stessa.
Estremamente struggente è anche il racconto di Mary Berg la quale, tramite il suo diario personale, ci ha trasmesso i ricordi di ciò che accadde all’interno del ghetto ebraico più grande d’Europa: il ghetto di Varsavia. Immaginare la disperazione e la povertà raccontata da una bambina è di una drammaticità assurda. Mary Berg riuscì a sopravvivere grazie alla sua doppia nazionalità, era per metà polacca e per metà americana, e solo grazie a questo, usata come merce di scambio per altri prigionieri, fu salvata. Il ghetto di Varsavia creato nell’estate del 1940 fu distrutto dopo quattro settimane di dura lotta nel maggio del 1943. Gli ebrei catturati furono inviati nel campo di sterminio di Treblinka.
Molti sono stati i monumenti in onore e in ricordo delle vittime della pazzia tedesca, ma probabilmente tra i più importanti figura la Sala dei Nomi che viene considerata come il “memoriale del popolo ebraico ad ogni ebreo che trovò la morte durante l’Olocausto, un luogo dove – quelle vittime- possono essere commemorate per le generazioni a venire”. Molto spesso i numeri non riescono a comunicare ciò che è accaduto, parlare di nove milioni di vittime è diverso dal vederle una ad una. Nella Sala dei Nomi sono presenti più di 2 milioni di foto in cui sono rappresentate alcune delle vittime della Shoah nelle loro attività quotidiana con una piccola biografia per ricordare che dietro ad ognuno di quei nove milioni di persone c’era una vita, c’era una storia e c’era una cultura e questo fa molto più riflettere rispetto alla freddezza dei numeri.
Di Galante Teo Oliva