
L’otto marzo e le mimose appasite
Come si spiega la discrasia verificatesi fra l’avanzamento del cammino della libertà e delle pari tutele delle donne, con l’aberrazione delle uccisioni?
Per questo otto Marzo 2021, dove la fanno da padrone il Covid e le sue insidiose varianti, non c’è tempo per la retorica, non c’è tempo per rinnovare rituali stanchi.
Di Pina Esposito
Le mimose deponiamole in segno di resa. I fatti e le cifre sono ciò che ci rimane, in termini di riflessione e, perché no, di input per edificare qualche straccio ancora di speranza.
Partiamo dalla disfatta. Inizio dal dato dei femminicidi, che ci strizzano ,con costanza, in faccia sangue e tragedie. Sempre di più, senza accenni a diminuire questi scempi, ma intensificati nelle pieghe di una società depressa, affranta, impotente.
Interrogarsi sul costante incremento delle donne uccise per mano di chi hanno amato o delle violenze che esse patiscono per mano loro, serve e serve anche attrezzarsi con più forza ed incisività, anche a fronte di tutte le azioni già intraprese, pure in termini di legge.
A questo fenomeno in espansione, che porta l’uomo a negare ogni forma di autonomia alla donna, ogni desiderio di padroneggiare la propria vita, a queste storie familiari dolenti e drammatiche, possiamo ancora fornire le interpretazioni di sempre?
Penso non bastino più e penso che sia necessario capire che il femminismo, pur risultando un movimento foriero di successi e di riscatto, debba fare i conti con questo buco enorme, colmo di silenzio e di strazio, di urla spente nella morsa della morte. Un buco in cui il maschio ha buttato colate di fango, in cui andava soffocato ogni indizio che inducesse verso i dettami della emancipazione e della libera espressione della volontà decisionale della donna.

Ogni maschio che ha assassinato la sua donna è stato spinto dall’ animalesca e cavernicola voglia di possesso. Se non sei più mia, non lo puoi essere più di nessuno. Non tutti i maschi assassini poi, dopo aver commesso il delitto, si tolgono la vita, ma molti lo fanno, uccidendo spesso anche i figli.
Tragedie di questo tipo fanno tremare l’animo, solo al semplice accenno; eppure, pare che sia subentrata l’assuefazione. Sembrano essere recepiti quasi come fatti normali, scontati, come il calare del sole o il nevischio delle sere di freddo, che come fatti naturali, insieme a tanti altri, esistono per forza di cose, intrinseche alla natura.
Dunque, intrinseco nel cuore di molti uomini del vecchio secolo e del nuovo millennio (giusto per non arretrare troppo nel tempo) vi abitano l’urlo del lupo famelico, il parlare disarticolato e il pensiero del maschio predatore della preistoria?
Come si spiega la discrasia verificatesi fra l’avanzamento del cammino della libertà e delle pari tutele delle donne, con l’aberrazione delle uccisioni?
Aspetti antropologici e sociali legati alla ferocia del femminicidio, vanno scovati meglio ,radicati come pare che siano ancora profondamente, in sovrastrutture che dovrebbero essere del tutto superate.

I mille passi avanti compiuti in decenni, per dare alla donna la dignità dovuta, si azzerano sul piano esistenziale e sociale, tutte le volte che prevale l’annientamento di essa. Annientamento che si riscontra anche quando non siamo di fronte all’omicidio (il caso più estremo), ma alla voglia di ridurre in schiavitù il soggetto femminile, nei cui confronti, è ahimè risaputo, avvengono altri insopportabili “crimini”.
Questo è il primo punto rispetto al quale, a mio parere, si può parlare di mimose appassite.
Mimose, fra i fiori che meglio indicano sprizzante gioia attraverso i soffici punti di giallo, di vitale allegria, metaforicamente, non hanno più niente.
Se passiamo al secondo aspetto, che è quello legato alla pandemia, sempre per ciò che mi riguarda, le mimose sono listate a lutto.
I dati degli incrementi delle violenze che le donne hanno subito durante il periodo forzato di prigionia fra le mura domestiche, sono impressionanti.
Nei nidi, nei domestici nidi familiari, molte donne non hanno trovato il calore protettivo di cui le sane famiglie, di solito, sono espressione, ma hanno scontato e scontano (anche ora che sono in corso ancora le restrizioni anti-covi) le cosiddette pene dell’inferno.
Se poi passiamo ai dati relativi al decesso per i contagi, anche qui, l’incidenza più alta si registra sul piano femminile. Soprattutto nel settore sanitario.
Procedendo, passiamo alle conseguenze economiche, determinatesi sempre per il coronavirus.
Dai dati elaborati dall’ Istat, si deduce che moltissime sono state le donne che hanno perso il lavoro, legate com’erano, a settori fra i più colpiti in questi orridi tempi.
Quindi, come si vede, imperano ancora i miscugli vischiosi fatti di sofferenze, in cui permane il divario delle diseguaglianze, della carenza di strutture che acuiscono il carico delle sofferenze che ancora ricadono sulle donne.
La strada che si profila, dunque, è ancora impervia, piena di insidie e trappole, di rischi e di fatiche che riguardano tutti, a partire dalle responsabilità politiche.
La parità di genere è ancora una conquista da realizzare. Ad oggi, è incompleta. E per raggiungerla, bisogna armarsi al meglio, evitando i reclami fastidiosi, di chi delle parità ne fa un dibattito di mero potere, assumendo gli occhiali della cultura maschilista, invocando in nome delle quote rose (strumento utile anni ed anni fa, quando certe conquiste erano un miraggio) la cultura del panda da tutelare e poi premiare in posti di comando, magari senza averne le dovute competenze.
Su questi aspetti, sempre secondo me, ha ragione Draghi quando in poche righe delinea ciò che ancora va fatto per garantire la parità di genere.
Allora, forse, potremmo vedere rifiorire le mimose!


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