“Mannaggia la miseria” di Anselmo Botte

1343-8 MannaggiaMiseria_CB_cop:Layout 1Prima ho immaginato Bono Vox sulla Statale per Eboli chiedere a qualcuno “Where is the street no name?” cercando di trovare San Nicola Varco, poi ho pensato a Nesli Rice con “Io amici non ne ho”, alla fine sembravo deciso, comincio con “Ille mi par esse deo…..un dio mi pare”. Sì, un dio mi pare si cerchi, ma non si trova. Alla fine decido che nulla sia adatto. Non sembri paradossale, ma la realtà a San Nicola Varco è molto peggio di come è raccontata nel libro di Botte. E Botte lo sa bene, probabilmente fa parte di quell’avanguardia che prima di altri, in Italia, ha capito che accanto ai temi tradizionali e classici del Sindacato ve ne era un altro: quello dei lavoratori immigrati. Primo perché “il sindacalista” citato nel libro, mai chiamato per nome, è lui. Secondo perché probabilmente l’Autore ha scelto di raccontare e di documentare, ma cercando di non infierire, per così dire, ulteriormente su quegli uomini che lì vivono (le donne sono bandite dal ghetto). Potremmo definire “Mannaggia la miseria” una sorta di diario, a me piace invece definire il libro un docuracconto, un documento cioè che si basa su fatti, dati e persone reali ma che ha trovato la sua migliore definizione nella forma di racconto. E’ questo racconto della quotidianità, i particolari, tutti presenti nel libro, che fanno bene al lettore che non si è mai avvicinato o molto semplicemente non si è mai posto il problema di cosa fosse l’immigrazione nel nostro Paese, del lavoratore immigrato in particolare. Attorno alla figura del bracciante immigrato poi rinasce alla grande (se mai era scomparsa) un’altra figura: il caporale, quell’odiosa figura, che adesso è rappresentata anche in parte da “loro”, e Botte ci fa capire, ci spiega, per bocca del suo protagonista, che se possibile è anche più “cattivo” del caporale italiano. Io non so se è voluto dall’Autore (conoscendo Botte probabilmente naturale, ma non voluto) ma ricavo dalla lettura del libro una malinconia che percorre ogni riga del racconto, dall’inizio alla fine. Quando il protagonista pensa al proprio Paese (il Marocco), ai paesaggi che lì ha lasciato, alla poesia delle piante di olive così simili a quelle vicino casa sua, e alla bella descrizione che ne fa alla madre e ai fratelli e al quasi mai nominato padre. Eppure non desidera tornare, l’orgoglio e la dignità lo impediscono. E’ vero, a San Nicola Varco si vive, e come si vive, si mangia, e come si mangia, si lavora, e come si lavora, ma tornare non si può. Anche sapendo quanto vale poco essere immigrato in Italia e quanto invece valga lo “status di emigrante” in Marocco. Allora meglio andare all’internet point (che tanto stride con la realtà raccontata nel libro), collegarsi con il proprio Paese, e dire alla madre che tutto va bene.

Di Mimmo Oliva