Il libro- biografia del partigiano Rosario Bentivegna, scritto con la collaborazione di Michela Ponzani, pubblicato dalla casa editrice “ Einaudi” e presentato di recente al “Punto Einaudi” di Salerno, costituisce un ulteriore ed importante contributo alla ricostruzione di alcuni dei passaggi decisivi della nostra storia nazionale più recente. La pubblica iniziativa, organizzata con l’attiva collaborazione delle Associazioni “Memorie” e “Koinè”, nell’ambito della Rassegna “Primavera Einaudi”, nel centenario dell’anniversario della nascita di Giulio Einaudi, fondatore della casa editrice torinese, ha messo lucidamente in rilievo l’interpretazione- corretta e veritiera – di ciò che effettivamente accadde nel corso dell’aspro e sanguinoso scontro antagonista che attraversò l’Italia nelle fasi conclusive del secondo conflitto mondiale. Il nostro territorio fu investito allora dalla frontale contrapposizione tra fascismo e antifascismo, tra occupanti nazisti e fascisti repubblichini da un lato e partigiani antifascisti, appartenenti a formazioni di diversa ispirazione e provenienza, dall’altro. Un passaggio ed una riflessione necessari ed obbligati in quanto è evidente la necessità di ristabilire una corretta relazione tra l’attualità del mondo in cui viviamo oggi con l’antefatto e le autentiche radici da cui deriva la peculiarità della nostra storia nazionale. E’ evidente, infatti, come non ci possa essere un futuro migliore per una comunità che perde o rinuncia all’interpretazione ed alla corretta comprensione della sua propria storia. Rosario Bentivegna è stato, come amava definirsi, un partigiano “comunista e libertario”, che si è battuto su più fronti, per una vita intera, per dare forma concreta all’ambiziosa idea di realizzare una società più giusta, più libera ed eguale. L’indirizzo della sua scelta di vita risulta ben chiaro fin dalle primissime pagine del libro, quelle in cui richiama la specificità delle sue origini, il ruolo attivo esercitato dai suoi antenati nel corso del Risorgimento, la prima grande lotta per la libertà ed il riscatto del paese combattuta dai migliori figli d’Italia contro lo straniero occupante ed oppressore, per ridare alla nazione l’indipendenza con la libertà. La biografia di Bentivegna è soprattutto un ulteriore, importante tassello teso a far giustizia del revisionismo, facile, disinvolto ed insidioso, che negli ultimi decenni, in maniera capziosa e interessata, è stato da più parti copiosamente alimentato. Un revisionismo che punta a riscrivere, arbitrariamente, la storia passata della nostra giovane nazione come una notte eguale, in cui tutte le vacche sono indistintamente nere. In cui, in sostanza, violenza ed assassinio finiscono per essere equiparati e poi coincidere con chi si è opposto ad essi, finanche con le armi. 2 La vicenda della ricostruzione dell’attacco armato dei GAP romani ad una colonna delle SS in Via Rasella, rivendicato come atto legittimo di guerra da un comunicato del CNL, con la rappresaglia vigliacca che ne è derivata contro 335 inermi cittadini, è senza dubbio il filo rosso di collegamento che lega sempre, a volte addirittura in maniera quasi ossessiva, le diverse, distinte parti di una storia intensa e avventurosa, il punto di snodo costante e decisivo che ritorna. La storia del personaggio è anche per più versi tragica nel senso che egli assumerà sempre e integralmente su di sé, per tutta l’esistenza, l’intera responsabilità di quella scelta. Il giovane Bentivegna vive pienamente il clima di violenza e di orrore che l’occupazione nazista ha scatenato sulla capitale. Coprifuoco, rastrellamenti, indiscriminati arresti di oppositori o di normali cittadini che a Roma, in larga parte, rifiutano l’adesione alla Repubblica Sociale sfuggendo al reclutamento al servizio delle truppe occupanti. E il suo racconto fa puntigliosamente giustizia della vulgata, volgare e interessata, secondo cui, prima della strage alle Ardeatine, consumata solo 24 ore dopo l’attacco partigiano a Via Rasella, vi era stato l’ultimatum tedesco con la richiesta della consegna dei responsabili dell’attacco militare. Un atto che, se compiuto, avrebbe evitato – di per sé- la rappresaglia e l’uccisione di tanti cittadini inermi ed innocenti. Un falso storico assolutamente clamoroso…! Da parte nazista non fu mai emesso infatti alcun comunicato nè diramato pubblico ultimatum in questo senso. Questa l’oggettiva verità! Bentivegna ricostruisce, puntigliosamente e con efficacia estrema, le ragioni che a quel tempo indussero tanti giovani alla scelta di opporsi al nazifascismo e ad imbracciare le armi contro l’occupante invasore, portando alla resistenza armata, nelle città italiane e poi nelle montagne, il desiderio di giustizia e libertà sorto nel cuore e nelle menti dei patrioti che decisero di battersi per restituire orgoglio e dignità alla Nazione umiliata, ferita, coperta di vergogna dall’ignominia del regime fascista e dalla fuga di un re imbelle e traditore. E per riscattare il paese che una spietata, ventennale dittatura aveva a un certo punto condotto, irresponsabilmente, in una guerra devastante e rovinosa causa di tanti lutti alla nazione. La dittatura fascista, fin dal suo sorgere, nel 1922, aveva causato all’Italia danni incalcolabili, eliminando – con la pratica di una violenza cieca, brutale, sistematica qualsiasi opposizione, ricorrendo di frequente finanche all’assassinio di tante straordinarie intelligenze, da Giovanni Amendola a Piero Gobetti, a Matteotti, Antonio Gramsci, Aldo e Nello Rosselli, di semplici operai, contadini ed intellettuali, causando in tal modo al paese e al suo futuro un danno immane. Un regime che, già in passato, nelle guerre d’aggressione scatenate su più fronti, in Africa, in Jugoslavia ed Albania, in Grecia e nei Balcani, in Spagna, si era macchiato di crimini orrendi, per nulla inferiori a quelli dei nazisti. 3 Da ciò derivò, spiega Bentivegna, la ferma convinzione che non si potesse più continuare nell’attesa, nella passività e nell’indifferenza. E la decisione della frontale opposizione, finanche armata, per mettere fine finalmente alla violenza. Una nuova consapevolezza, maturata poco per volta nei posti di lavoro e nelle Università, destinate col tempo a divenire le retroguardie sicure di una lotta armata che, in specie nel Nord e nel centro del paese, finì per diventare lotta di massa e popolare. La resistenza ritesseva un filo di collegamento ideale con le pagine più limpide e gloriose della storia nazionale, con la stagione del Risorgimento e con la lotta intrapresa per l’indipendenza e per la libertà, un limpido lascito di cui sentirsi eredi. I giovani di venti anni o poco più furono i principali attori di quella stagione di riscatto. La guerra di Spagna, combattuta tra il 1936 ed il 1939, era stata l’antefatto di più acuto rilievo nel grande scontro mondiale che avrebbe a lungo opposto fascismo e antifascismo. Un nodo ed un passaggio per tanti aspetti cruciale e decisivo. Il libro biografia è un viaggio nell’esperienza di un partigiano e militante comunista, combattente delle Brigate Garibaldi, in Italia e poi su altre aree dello scacchiere dell’Europa e poi ancora più avanti attivamente impegnato nello scontro politico- sociale che si sarebbe scatenato in Italia tra nuovi fronti interni contrapposti all’indomani della conclusione del tragico conflitto. Bentivegna combatterà il nemico coi partigiani dei GAP nella città di Roma, poi sulle montagne laziali, nel suo paese e quindi in Jugoslavia, al fianco delle forze partigiane titoiste, in un conflitto particolarmente sanguinoso, contro i nazisti e i fascisti italiani, ma anche contro gli Ustascia di Ante Pavelic e i cetnici monarchici. E’ il caso di segnalare la specificità del caso jugoslavo, non fosse altro per il fatto che quella sarà l’unica, tra le varie nazioni dell’Europa, a liberarsi dal mostro nazifascista con le sue esclusive forze. E mi pare possa ancora essere il caso di tornare all’esame della concezione di “comunista libertario” propria di Bentivegna. Per ora si può solo anticipare l’opposizione ed il contrasto netto dell’autore con la concezione staliniana in quegli anni prevalente, con la degenerazione che, col suo “Bonapartismo” avrebbe colpevolmente finito per cristallizzare in un dogma un ideale. Ed è ancora a questo punto utile chiarire, come sostiene Michela Ponzani, tra l’altro richiamando la lucida testimonianza di Celeste Negarville, che Bentivegna non indulge mai in alcun compiacimento rispetto al concetto di ricorso alla violenza, neppure a quella giusta. Sempre netta, invece, la sottolineatura che si trattò di una scelta difficile e per più aspetti lacerante e dolorosa, una scelta di necessità, un atto obbligato dalle circostanze in cui l’Italia e l’Europa occupata vennero a trovarsi, per porre fine all’occupazione nazista con la sua orrenda scia di stragi, torture, distruzioni. L’uomo, non certo l’eroe, emerge dallo scritto, insieme alla tragedia ed al contempo in tutta la sua 4 grande umanità. Coi dubbi e le incertezze, ad un certo punto superate solo in virtù di un richiamo a un’etica e ad un valore superiore. Davanti agli occhi i compagni imprigionati, Carlo Salinari, insigne docente di letteratura italiana, catturato dai nazisti e barbaramente torturato. E tutti coloro che, per quella scelta, in ogni istante hanno rischiato e rischiano la vita. Un testo per più ragioni intenso, ed allo stesso tempo delicato, anche dal punto di vista squisitamente letterario e intriso, ripeto, di profonda umanità. Bentivegna difenderà sempre, in ogni circostanza, la limpidezza e la legittimità dell’atto di guerra contro un nemico spietato a Via Rasella e si batterà contro le molteplici mistificazione interessate dei tanti volgari corifei che, negli anni seguenti, s’impegneranno a riproporre un racconto ed una ricostruzione falsa e capziosa di quei fatti. Frutto dell’adesione subalterna al clima di restaurazione che si è affermato nel paese, in specie e soprattutto all’indomani della sconfitta del “Fronte popolare” del 18 aprile 1948. Un clima, conservatore e reazionario, potentemente alimentato a piene mani anche dalla stessa Chiesa nelle sue più alte gerarchie. Per riaffermare la verità, Bentivegna sosterrà la prova di molteplici processi, fino alle sentenze che, in via definitiva, finiranno per dilatare dubbi ed incertezze, facendo infine chiarezza e giustizia, pienamente. E’il caso ancora, in conclusione, di ricordare l’impegno, mai venuto meno, dagli anni immediatamente seguenti al secondo dopoguerra, in difesa e per il miglioramento delle condizioni del mondo del lavoro. L’azione come medico del lavoro nell’Inca Cgil a salvaguardia della salute dei lavoratori, la continuità dell’azione profusa sul terreno dell’antifascismo militante, l’aiuto fornito nel 1968 ai comunisti ed agli antifascisti vittime del colpo di Stato e della dittatura del regime dei colonnelli greci. Un modo di agire e d’interpretare i nuovi fatti della storia conseguente alle battaglie condotte per una vita intera, il secco rifiuto di ogni passività e indifferenza verso il mondo, gravido di ingiustizie e vessazioni, l’obbligo di continuare a combattere per spezzare e cancellare quella diffusa trama di prepotenze, violenze ed ingiustizie. Alcune sue valutazioni e scelte, più squisitamente politiche, forse non sono tuttavia condivisibili del tutto. Mi limito a segnalarne due. La prima è legata al giudizio, probabilmente eccessivamente liquidatorio e sferzante contro i comunisti jugoslavi. Certo il rapporto tra jugoslavi e combattenti antifascisti italiani non fu dei più semplici e lineari. A me sembra tuttavia in qualche maniera discutibile e schematica la sostanziale equiparazione tra comunisti jugoslavi e stalinismo sovietico, ed il compiacimento che sembra trasparire a fronte della scelta di scomunica del Cominform verso il tentativo di Tito di affermare, in quella drammatica situazione contingente, una linea più 5 accentuatamente autonomista. Un eccesso polemico che, forse, prescinde dalla compiuta considerazione delle radici dell’acuta diffidenza degli jugoslavi verso gli italiani in quanto tali. Gli italiani, nel Montenegro e non solo, come specifiche ricerche storiografiche hanno chiarito in tempi più recenti, si erano macchiati di crimini orrendi contro le popolazioni civili. Incendi, uccisioni, stupri, violenze di massa indiscriminate, questa la storia dell’occupazione, un vivido ricordo da cui era obiettivamente difficile staccarsi. Serviva tempo ai partigiani jugoslavi per affermare a pieno l’esistenza di nette e radicali differenze tra fascisti italiani e partigiani italiani antifascisti. Una solidarietà tra combattenti antifascisti che si poteva cementare solo col tempo nella comune lotta. L’altro punto discutibile è la sua scelta, maturata nel 1985, di abbandonare il Partito Comunista introducendo una cesura nella linearità della sua esperienza militante. Certo già a quel tempo iniziava, nel partito, una qualche incisiva mutazione, una profonda trasformazione involutiva. Probabilmente anche un suo snaturamento progressivo, in concomitanza con l’avvicinarsi dei comunisti italiani all’area di governo. L’avvio di un’omologazione, una caduta dell’autonomia, dell’esercizio della criticità, una perdita delle proprie radici più feconde e di una distintiva, peculiare identità. Rilievi, si badi, tutt’altro che infondati, una deriva che continua a riguardare ancora oggi l’insieme dei partiti ridotti, sempre più spesso a puri comitati elettorali, strutture che troppo spesso sembrano rinunciare a svolgere una funzione quotidiana e permanente di educazione civile e democratica. Un’involuzione cui, però, non si può dare la risposta – in qualche modo aristocratica- dell’appartarsi, della testimonianza sterile di una propria estraneità, con la denuncia etico morale, spesso nella sostanza ininfluente. La politica si muove secondo le rigorose leggi della fisica. Ogni spazio che è lasciato vuoto viene coperto da altri ed immediatamente. Se ci si allontana e ci si estranea dal contesto che è storicamente dato la riforma della politica, necessaria ed anzi indifferibile, diventa più difficile ed incerta. Non c’è ancora un luogo che può sostituire integralmente ed efficacemente l’azione, il ruolo e la funzione essenziale dei partiti. Strumenti – ancora oggi- decisivi per lo sviluppo della democrazia, in grado di costituire un argine alla disgregazione ed impedire la deriva. Bisogna cercare di resistere, insieme agli altri, nei punti e nelle situazioni in cui è ancora possibile incidere davvero. Bentivegna è stato più cose insieme, un combattente antifascista, un vero democratico, schierato sempre, con assoluta dedizione, lungo la linea della democrazia, di una democrazia nuova e progressiva, nel solco dell’insegnamento del Partito Nuovo togliattiano, del pluralismo e della tolleranza, dell’esercizio di una dialettica, libera e feconda, per l’ampliamento della libertà, contro 6 le ingiustizie del mondo e mai incline, tuttavia, all’accettazione di una gratuita violenza. Nettissima, sempre, la condanna del ricorso al terrorismo quale atto legittimo di lotta politica normale. Mai ha condiviso un concetto di violenza valido per sé. E stato invece un sollecitatore appassionato della lotta di massa e della partecipazione – piena, costante, consapevole – dei cittadini alle vicende della vita pubblica, fattore decisivo e indispensabile per costruire un futuro migliore alla nazione. A volte appare del tutto naturale, di per sè dovuto, il contesto dei diritti e delle libertà di cui godiamo nel mondo attuale in cui viviamo. E forse ci sfugge il fatto che la libertà di oggi è il frutto di immensi sforzi e sacrifici, anche dolorosi, delle generazioni e degli uomini migliori che ci hanno preceduti. E che si tratta di un qualcosa che, giorno per giorno, va difeso ed ampliato sempre. Il valore di un libro consiste in special modo nel durare ben oltre il limitato tempo terreno che ci è dato. E’quello di continuare a dare un senso, come in questo caso, alle ragioni ed ai valori per cui si è spesa l’esistenza e si è vissuto. Nel salvaguardare la giustezza imperitura di certi insegnamenti. In ciò il valore di una storia, di una testimonianza che, per quanto ricordato, possiamo percepire tuttora integralmente attuali e vivi.
Di Piero Lucia