“La misura”- Racconto
La misura è sempre importante. Perché lo spazio che arredo col mio corpo non ha misure precise come quelle di un televisore, di un pensile o di una lavatrice.
Un racconto di Deborah Riccelli in occasione della giornata nazionale di sensibilizzazione verso i DCA
–La Misura–
di Deborah Riccelli
Per vivere non basta respirare.
Nessuno chiede di essere messo al mondo ma una volta che sei qui devi desiderare di essere vivo.
Esiste forse un’unità di misura che separa un sospiro da un respiro?
La misura, sì.
La misura è sempre importante. Perché lo spazio che arredo col mio corpo non ha misure precise come quelle di un televisore, di un pensile o di una lavatrice.
Credo sia questo il mio problema, io non conosco la mia misura esatta.
Non conosco lo spazio necessario per occupare la mia vita.
Come stai?
Malissimo.
In che senso?
Nel senso che sto male.
Non capisco. Perché?
Perché ho paura.
Paura di cosa? Non avrai mica paura di ingrassare tu che sei quattro ossa messe assieme. Qualche chiletto in più non ti farebbe male. Tò, potresti prendertene un po’ dei miei.
Sono triste.
Ma, secondo te, sei l’unica ad essere triste? Mangia và! Che i veri problemi li hanno quelli che muoiono di fame perché da mangiare non ne hanno e non quelle che non mangiano perché vogliono fare la modella, come te.
Vorrei morire.
Uff…ma la smetti? Devi pensare a cose belle, tirati su che i problemi sono altri. Tu problemi non ne hai.
Il giudizio. Tutti pronti a giudicare quanto e come stanno male gli altri. Ci sono i mali dell’anima, quelli invisibili. Mali che uccidono ma meno importanti perché si notano meno di due stampelle o di un braccio ingessato.
Chissà se chi mi pone certe domande idiote pensa, prima di parlare.
La modella, io? Peso 37 Kg.
Sto a malapena in piedi e, secondo la signora che ho appena incontrato fuori dalla chiesa, io non mangio perché voglio fare la modella?
Una modella desidera essere guardata, io vorrei sparire.
Percorro Sottoripa, lentamente e con fatica. Tra non molto sarà Natale. Anna non lo vedrà. Quel che è rimasto del suo corpo è rinchiuso in una bara, ho appena assistito al suo funerale.
Era la mia compagna di stanza. L’unica alla quale ho avuto il coraggio di raccontare i miei stratagemmi per non nutrire il mio corpo. L’unica che non mi ha giudicata. E’ stata per me una boa, un’ancora di salvezza, un picchetto di generosità che il destino ha posto sulla mia strada. Abbiamo tutte bisogno di un’amica speciale nelle varie fasi della nostra vita. Quella che, qualunque cosa succeda, sarà dalla nostra parte.
Quella che indosserà l’armatura per combattere la nostra battaglia che diventerà anche la sua. Resteremo noi, Anna. Le ragazze della stanza 38, quelle che sezionavano una patatina in otto pezzi, se ne dividevano uno e facevano sparire gli altri sette in fondo alla pattumiera. Mi manchi già.
Non credo si sentisse in colpa per chi il mangiare non ce l’ha, signora mia. Sicuramente Anna non pensava a chi muore di fame mentre vomitava. E’ arrivata a farlo per ben 42 volte in un giorno. Il primo digiuno in quarta elementare. Da quel giorno ha alternato periodi di anoressia, binge etaing e bulimia. E’ arrivata a pesare 98 Kg quando mangiava di nascosto 15 Kg di pasta al giorno, ha tentato più volte il suicidio, ha cercato di curarsi in svariati modi e, infine, non ce l’ha fatta. E’ morta. E’ morta di fame a soli 37 anni.
Io di anni ne ho 42 e peso 37 Kg. Le misure, dicevo. Sono composte da numeri e, beffa del destino, il numero dei miei anni è pari alle volte in cui Anna vomitava e i miei Kg sono pari agli anni che ha vissuto su questa terra.
Io mangiavo. Mia madre racconta che quando ero piccola mi attaccavo al suo seno con voracità. La dottoressa Spagnoli, durante uno dei suoi tentativi di salvataggio, ha consigliato a mia madre di mettere una pettorina al petto_ con una sorta di biberon appeso_ dal quale io avrei potuto alimentarmi.
Dice che sta tutto lì il mio blocco.
Nella mia mente e nel mio rapporto con mamma.
C’è un mare di psicoterapeuti convinti che esista una correlazione tra l’anoressia e il rapporto con la madre.
Forse mia madre è una madre di vetro? Infantile, fragile ed incapace di vivere una sua autonomia, una donna che si vede spezzata in due dalla prospettiva di venire abbandonata o delusa dalla figlia?
Oppure è una madre-coccodrillo che non prende in considerazione la possibilità di cercare la propria felicità che non sia solo narcisistica e propria. Che non vede la possibilità che la figlia possa avere un’esistenza diversa dalla sua, separabile e separata. Una donna, insomma, che usa la figlia come un prolungamento di sé.
Dicono che è in questo modo che, per questo tipo di madre, la figlia diventa una realizzazione idealizzante di sé stessa. Un essere creato da lei, totalmente suo, che la salverà dalla frustrazione e dalla solitudine causata, spesso, da un marito assente e distratto.
La mia è una famiglia normale.
La mia mamma è una mamma come tante. Mi ama e io amo lei.
E’ solo la mia misura nel mondo che non riesco a trovare.
E’ solo mia la colpa.
Comunque, ve la immaginate, una settantenne stanca che “allatta” una quarantaduenne che pesa quanto una bambina? Che cosa assurda.
Io ero bella. Quando sono nata pesavo 4 chili e 125 grammi. La mia testa era ricoperta da una folta peluria bionda e avevo due vispi occhi azzurri. Gli occhi sono sempre azzurri, ma tristi. I capelli vengono via a ciocche, per questo oggi indosso una parrucca.
Mangiavo tanto. Da bambina mamma mi ha messo a dieta più volte e non dev’essere stato semplice per lei spiegarmi il concetto di grasso, di valori del sangue sballati o altre cose simili. Io volevo affogare in un mare di gelato e bignè.
Poi qualcosa è cambiato. Ma io non so cosa.
La prima dieta, la voglia di perdere qualche chilo e poi, quando questo è avvenuto, la perdita del controllo che ingannevolmente mi ha fatto sentire invincibile.
Ho perso di vista il mio spazio nel mondo. La misura, ritorna ed è sempre lei.
Col passare degli anni sono diventata bravissima a rifiutare il cibo, a far finta che nulla sia di mio gradimento, a fingere qualche allergia o intolleranza alimentare.
Sono brava a mentire, io.
L’anoressia è una gabbia. Ci si entra da sole e si chiude la cella. Ci si sta bene dentro. Ci si sente forti. L’idea di poter controllare la fame ci fa credere di poter controllare tutto. Anche la quantità di amore che il mondo ha in serbo per noi.
L’anoressia è una vorticosa discesa senza tappe. Anna non è riuscita a risalire ma io voglio vivere. Anche se non riconosco il mio spazio.
Mentre penso a tutto questo mi ritrovo davanti al negozio di frutta secca. Quante volte e per quanti anni la nonna mi ha portato qui. Ha sempre comprato da Armanino gli ingredienti per fare il croccante di mandorle e il pandolce genovese. Comprava anche un sacchetto di mele essicate, che mi piacevano tanto.
Mi fermo davanti alla vetrina e un ricordo incomincia a prendere forma nella mia mente.
Mia nonna impastava fin dalle prime luci del mattino. Tutti gli ingredienti ben disposti sul tavolo:
500 grammi di farina
10 grammi di lievito per dolci
1 uovo
100 grammi di zucchero
75 grammi di arancia candita
75 grammi di ciliegie candite
75 grammi di cedro candito
150 grammi di uvetta
50 grammi di zibibbo
20 grammi di pinoli
latte q.b.
Mischiava e inseriva gli ingredienti con calma, uno alla volta e non tirava la pasta. La accarezzava, la lisciava, concentrandosi. Me la faceva assaggiare, cruda e dolce e io, mentre ne prendevo un pezzetto e lo portavo alla bocca, pensavo che sarei voluta entrare in quel puntino immaginario che lei fissava mentre il pandolce prendeva forma.
Avrei voluto rubare tutti i suoi pensieri, non solo un pezzetto di pasta cruda. Mia nonna non li guardava gli ingredienti, li conosceva a memoria. Li ri-conosceva come avrebbe riconosciuto ad occhi chiusi l’abbraccio di mio nonno o l’odore di noi bambini.
Il controllo, lo spazio, la misura.
Lei aveva tutto “sotto controllo”. Stava organizzando le nostre giornate di festa e, nutrendoci, ci avrebbe regalato ricordi. Tutto il resto era lì. Dentro a quell’impasto. Una ricetta, il cibo si può trasformare in amore, grandezza, cura ed estensione.
Pandolce. Pane-dolce.
In un libro lessi che Pane è la più accogliente, la più gentile di tutte le parole. Suggerivano di scriverla sempre in maiuscolo, come il nostro nome. Dolce è uno dei quattro sapori fondamentali che il nostro palato è in grado di riconoscere.
Pandolce.
Ecco, io ricomincio da qui.
Entro nel negozio e compro la frutta candita. Stasera mangerò una ciliegia, lo prometto.
Domani, alle prime luci del giorno, chiederò a mia madre di aiutarmi ad impastare e so che piano piano incomincerò a trovare la mia misura nel mondo.
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